lunedì 11 ottobre 2010

Buon pomeriggio, buonasera e buonanotte...Jim Carrey e Arthur Schopenhauer...



La maggior parte di noi crede che il mondo vero sia quello che vediamo, udiamo e sentiamo. Siamo sicuri che la realtà che ci circonda sia la vera realtà e questa convinzione è talmente ovvia e scontata che neppure ci soffermiamo a rifletterci. Chi mai oserebbe farne questione?
Anche Truman Burbank (Jim Carrey) crede con certezza di vivere a Seaheven e pensa di essere anche fortunato ad essere stato “gettato” dal destino in quell’isola, perché può godere di un clima ideale e vivere in un paradiso in cui non succede mai niente di brutto. Invece, il regno confortevole in cui Anderson crede di svolgere la sua vita ordinaria è di fatto un ampio, deliberato inganno e la sua amatissima Seahaven è, in realtà, un gigantesco set costruito dietro le colline di Hollywood, nel quale tutto è falso: i concittadini sono comparse, il mare è una grande piscina, gli eventi atmosferici sono prodotti dagli effetti speciali e l’orizzonte è un fondale di cartapesta. Sì perché Truman è, fin dal concepimento, scelto come “cavia mediatica” e la sua vita si svolge dentro un gigantesco set cinematografico in cui ogni istante della sua vita è spiato da 5000 telecamere e mandato in onda ventiquattro ore su ventiquattro in un reality televisivo di grande successo, di cui egli è il protagonista inconsapevole. Ideatore e deus ex machina dello spettacolo è il regista Christof che dirige tutto dalla falsa luna, sede dello studio di registrazione e che si crede onnipotente come un Dio. Fermiamoci qui.
Il film di Peter Weir non è, come molti pensano, una semplice denuncia sociologica dell’invadenza della televisione (per questo, andatevi a vedere “Quinto Potere” di Sidney Lumet), né tanto meno, una mera critica a trasmissioni insulse sul tipo del Grande fratello (a che serie siamo arrivati?). Infatti, sono possibili livelli di lettura molto più profondi, come ad esempio quello che vede nel lungometraggio di Weir la trascrizione filmica del conflitto tra totalitarismo (che vuole controllare i cittadini anche nella loro vita privata)e libertà individuale. In fondo, Seahaven è la realizzazione del Panopticon, il dispositivo carcerario ideato dal filosofo Jeremy Bentham alla fine del Settecento: chi vi soggiorna può essere osservato, ma non può osservare. Nel Panopticon le celle sono disposte a cerchio intorno a una torre centrale, cosicché possono essere sorvegliate da un solo guardiano, che vede tutto senza essere mai visto (e ci torneremo, sul Panopticon, perché ne parlerà Michel Foucault in “Sorvegliare e punire”).
L’interpretazione più suggestiva del film di Peter Weir è però di tipo gnoseologico: The Truman Show è infatti una metafora dei limiti della nostra conoscenza, che scambia per realtà ciò che invece è illusione (in questo ci richiama alla mente un altro film genuinamente filosofico, "Matrix" dei fratelli Larry e Andy Wackowski). Adesso spero che a questo punto vi sia venuto in mente René Descartes e le sue Meditazioni metafisiche (1641). “De omnibus dubitandum est”, scrive il filosofo francese, niente si sottrae al dubbio. E il dubbio è talmente “iperbolico” che Cartesio arriva non solo a dubitare delle conoscenze sensoriali, ma di ogni conoscenza, anche di quelle che appaiono certe e sicure. E se ci fosse un “genio maligno” a orchestrare l’intera nostra esperienza tenendoci costantemente nell’inganno? La nostra mente potrebbe essere stata creata, anziché da un Dio buono e perfetto come quello cristiano, da un genio maligno e furbo, intento solo ad ingannarci. Il genio-maligno di Descartes trova una sua rappresentazione cinematografica nel personaggio regista-demiurgo di Christof, il quale osserva “dal cielo”, cioè da una luna artificiale, il mondo fittizio che ha creato per Truman. Christof, intervistato da un giornalista televisivo, spiega come mai Truman non si sia accorto dell’inganno in cui vive da sempre. “Secondo lei – chiede l’intervistatore – per quale motivo Truman non è mai riuscito a scoprire la vera natura del mondo in cui ha vissuto finora?” “E’ molto semplice – risponde Christof – noi accettiamo la realtà del mondo così come si presenta”. In altre parole, ognuno di noi è prigioniero di una caverna platonica.
La realtà vera non è quella che viviamo, le cose che percepiamo con i sensi sono un inganno, un sogno, uno strano incantesimo di cui cadiamo facilmente vittime. Ed eccoci a Schopenhauer e alla sua tesi circa l’illusorietà del mondo che ci circonda. Il mondo sensibile è illusione, sogno, simulacro, è “velo di Maya”:
“è Maya, il velo ingannatore che avvolge gli occhi dei mortali e fa loro vedere un mondo del quale non può dirsi né che esista né che non esista: perché ella rassomiglia al sogno, rassomiglia al riflesso del sole sulla sabbia, che il pellegrino da lontano scambia per acqua; o anche rassomiglia alla corda gettata a terra che egli prende per un serpente” (Il mondo come volontà e rappresentazione, I, § 3).
Solo al di là del fenomeno si trova la realtà vera sulla quale l’uomo, “animale metafisico”, non può fare a meno di interrogarsi. Ma l’idea del sogno, presuppone l’idea del risveglio. Da un sogno deve essere possibile risvegliarsi, da un inganno deve essere possibile liberarsi. Dalla vita illusoria di Seahaven è possibile uscire: il mondo i cui vive Truman ha un fuori, è davvero un inganno.
Come l’uomo di Schopenhauer può lacerare il vero di Maya e cogliere l’essenza noumenica della realtà, anche Truman, una volta compresa l’illusorietà del mondo in cui vive, decide di conoscere ciò che finora gli è stato nascosto, avventurandosi in mare aperto per trovare il “passaggio” che lo può condurre al di là del velo di Maya. Il regista non mostra il destino che attende Truman dopo la scoperta della “cosa in sé”: Truman spalanca solo una porta sul buio e non sappiamo che cosa il protagonista troverà dall’altra parte. La speranza è che tale rivelazione non risulti tragica come nella filosofia di Schopenhauer, in cui la volontà di vivere si mostra come dolore universale.
La possibilità di un lieto fine è però messa in dubbio da Christof quando afferma che Seaheven è sì un posto in cui Truman è prigioniero, ma è anche un luogo felice nel quale egli non ha niente da temere, è il mondo come dovrebbe essere, una “farsa” sì, ma anche un rifugio che lo protegge. Invece la realtà autentica, quella in cui vivono gli altri, è si “vera”, ma “malata” e pericolosa. Ma è davvero l’infelicità il prezzo che si deve pagare per uscire dall’illusione? E’ davvero così pericoloso conoscere la verità ed essere liberi? Quando vi sentite vittime di illusioni? E quanto queste illusioni vi riscaldano e proteggono? Il nome “Truman”, letto in inglese, significa “uomo vero” (true man). Perché, secondo voi, Weir ha scelto questo nome per il protagonista?

lunedì 4 ottobre 2010

Tutto ha inizio dalla "paura"...

Vi presento un grande filosofo dell’antichità: Aristotele. E’ talmente capace che Dante, nell’“Inferno” lo definisce “maestro di color che sanno”. Abbiamo visto come il primo libro della sua “Metafisica” possa essere considerato il primo manuale di storia della filosofia, anche se lui non aveva scelto né il titolo, né tanto meno quella precisa sistemazione del testo. All’inizio della “Metafisica”, Aristotele scrive:

“Gli uomini, all’inizio come adesso, hanno preso lo spunto per filosofare dalla meraviglia, poiché dapprincipio essi si stupivano dei fenomeni più semplici e di cui essi non sapevano rendersi conto, e poi, procedendo a poco a poco, si trovarono di fronte a problemi più complessi, come i fenomeni riguardanti la Luna, il Sole, le stelle e l’origine dell’universo”.

Si trova, in questo brano aristotelico, un termine molto importante per la filosofia: “thauma” (meraviglia), a cui è legato il verbo “thaumazein” (provare meraviglia).
La meraviglia come origine della filosofia, dice Aristotele. E il suo maestro, Platone, aveva scritto nel “Teeteto”: “E’ proprio del filosofo essere pieno di meraviglia: e il filosofare non ha altro cominciamento che l’essere pieno di meraviglia”.
Purtroppo però, la traduzione con “meraviglia” non va affatto bene: la resa in italiano, che non possiede la ricchezza del greco antico, conduce ad un restringimento di significato assolutamente fuorviante.
Nella lingua greca “thauma” rimanda a qualcosa di minaccioso, di inquietante: Omero, ad esempio, descrive Polifemo come “un mostro che incita paura (thauma)”. Questa parola greca, che Aristotele pone all’inizio della filosofia, sta a significare anzitutto lo sgomento ancestrale nello scoprire il divenire di tutte le cose, la paura di fronte alla consapevolezza che il mondo, e noi con lui, è sottoposto ad un ciclo continuo di nascita e di morte, la volontà di trovare un rimedio alla fine, al nostro scivolare nel nulla.
Nessuno può sfuggire al divenire, nessuno può sfuggire alla trasformazione, alla generazione e alla corruzione (per usare, ancora una volta, termini cari ad Aristotele!). Che la cosa ci piaccia o no, siamo su questa giostra e dobbiamo correre la nostra corsa, insieme a tutto il resto…
La filosofia nasce quindi dal “thauma”, cioè dallo sguardo angosciato sul mondo preda del continuo divenire. Ed è proprio di fronte a questo divenire che si arrestarono i primi filosofi: di fronte alla molteplicità dei fatti e ai loro mutamenti continui, la filosofia si costituisce come ricerca di quell’elemento unitario che spieghi il senso e l’accedere complessivo della realtà della natura. La filosofia, come abbiamo visto in classe, inizia quando il pensiero inizia ad interrogarsi sulla natura delle cose, sul loro principio di vita, sul principio regolatore che ne stabilisce l’ordine e le leggi. “Che cosa sono le cose che ci circondano e quale la loro origine?” E’ possibile trovare qualcosa che si sottragga alla molteplicità e al divenire, che possa sottrarsi a questo destino di morte e cui noi, in quanto individui, non possiamo sfuggire?
A queste domande, che avevano da sempre interessato l’uomo, rispondono i primi filosofi: Talete, Anassimandro, Anassimene, i Pitagorici, Eraclito, Parmenide, i fisici pluralisti, ossia quei filosofi che vengono indicati con l’etichetta “presocratici”. Prima di loro la risposta consisteva nel racconto mitico che narrava in forma poetica la nascita del mondo, mentre adesso si cerca una risposta diversa, affrontando la questione con un atteggiamento teso a spiegare razionalmente la realtà. Ad un certo punto, in un preciso momento della storia della nostra civiltà, cioè nella Grecia del VII secolo a.C., l’uomo ha cessato di accontentarsi delle parole del mito, delle sue risposte e dei suoi rimedi alla paura della morte e ha cercato le risposte della filosofia.
Le soluzioni che forniscono possono sembrare ingenue, ma la domanda a cui cercano una risposta, per quanto millenaria, è ancora viva e vegeta. In attesa di una soluzione che, forse, non arriverà mai.

Giganti o gnomi?




Abbiamo iniziato l’avventura della filosofia e siamo partiti dall’inizio, da quella “antica”.
Dopo Bodei, che ci dice che “la filosofia non serve a nulla”, per fortuna ci viene in soccorso un altro bravissimo professore di filosofia: Maurizio Ferraris. Oltre ad insegnare all’Università di Torino ed a scrivere libri interessanti, Ferraris si è prestato a registrare alcune lezioni, pubblicate in una serie di DVD per la rivista “L’Espresso”, proprio lo scorso anno. Il video con cui inizia questa riflessione è tratto proprio da lì. L’iniziativa editoriale inizia, ovviamente, con una lezione sui “Presocratici” ed è proprio sulle insidie e i tranelli nascosti dietro questa etichetta che Ferraris vuole metterci in guardia. “Presocratici”, non vuol certo dire “precursori”, “tristi predecessori”, non vuole battezzare questi filosofi (che pensarono prima della rivoluzione socratica) come degli opachi e smunti iniziatori di qualcosa che solo successivamente si rafforzerà e diventerà grande. Non restiamo vittime di un abbaglio: con i presocratici non ci troviamo nell’anticamera della filosofia, in attesa di varcare la soglia di un grande palazzo, con stanze ampie e ariose. Con i presocratici siamo già dentro una filosofia che, sebbene avrà occasione di maturare, pone alla nostra attenzione problemi che hanno una storia vecchia come il mondo.
Ma da cosa deriva questo abbaglio? Una convinzione molto diffusa è che ciò che appartiene all’antichità sia qualcosa di più “piccolo”, di più “modesto”, rispetto a ciò che è moderno o contemporaneo. E’ come se nel concetto di “antico” vi fosse inclusa l’idea che l’antichità corrisponda alla nascita, ai primi gemiti, ai primi respiri e che quindi necessiti di crescere e di maturare per raggiungere adeguati livelli, per parlare e respirare da adulto.
Invece, per la filosofia, è successo proprio il contrario. Ma c’è voluto un filosofo della statura di Martin Heidegger (ari-eccolo!!!!) perché la verità sull’importanza del pensiero antico venisse espressa adeguatamente e con autorità. A giusta ragione, infatti, egli sostiene che la “filosofia antica è nata grande”; nella “Introduzione alla metafisica”, Heidegger scrive:
“[…] qui si tratta della filosofia, vale a dire di una delle poche cose grandi di cui l’uomo è capace. Ora, ogni grande cosa può avere solo un grande inizio. Il suo inizio è sempre la cosa più grande […] Tale è la filosofia dei Greci”.
Si parte in quinta, allora. Non abbiamo avuto neppure il tempo per il rodaggio.
Eppure a noi queste risposte sembrano così fantasiose, così inverosimili e bizzarre. Altro che “grande” la filosofia della Grecia! Sembrano proprio dei vagiti queste teorie sull’archè…l’acqua, l’ápeiron, l’aria…e chissà quante altre ne inventeranno!
Davvero ci sembra una perdita di tempo studiare questi tipi strani, che non guardano neppure dove mettono i piedi, e che cadono nei pozzi per formulare ipotesi così stravaganti e sconclusionate!

Ma lasciamo un attimo la filosofia e volgiamoci a pagine di letteratura. Per inaugurare queste riflessioni dei primi filosofi, vi lascio una pagina di Erri de Luca, a cui devo letture indimenticabili:
In una voce di “Alzaia”, intitolata “Gnomi”, lo scrittore napoletano scrive:

“Archelao di Atene, maestro di Socrate, credeva che i terremoti fossero sfogo di vento compresso sottoterra. Democrito credeva invece che fossero flussi di acque sotterranee. Anassagora di Clazomene vide il cielo come una volta di pietre incastrare, soggette a cedimenti e crolli. […]
Diogene di Apollonia disse che il sole era come una pietra pomice e in esso si fissavano i raggi dell’etere. Leucippo affermò che la terra era un tamburo. Per Democrito era invece a forma di disco, concava nel mezzo. Posidonio e Dionisio conclusero che la terra era a forma di fionda.
Oggi sappiamo che sbagliavano, però scrutavano il mondo con tutti i sensi, lo meditavano per intero e abitavano la natura. Possedevano in loro tutti i punti del sapere di allora, conoscevano le stelle come le facce dei loro cari, predicevano eclissi e comete, affacciati sull’universo, nell’impresa di prevederlo. Noi siamo accampati in stanze protette contro la notte, il suolo e lo spazio aperto. Ci occupiamo di frammenti di ricerca sempre più minuscoli. Siamo gnomi nei confronti dei loro pensieri imprecisi, ma profondi, scaturiti da notti intere trascorse su terrazze e tetti a ragionare di infinito” (Erri De Luca, Alzaia).