venerdì 14 gennaio 2011
A proposito di relativismo....
“Passo ora a quelle cose che le città e i popoli ritengono brutte. Per esempio, per gli Spartani, che le fanciulle facciano la ginnastica e si esibiscano in pubblico sbracciate e senza tunica; è bello; per gli Ioni, brutto. E per quelli, è bello che i fanciulli non apprendano la musica e le lettere; per gli Ioni è brutto non sapere tutte queste cose. Presso i Tessali, è bello per una persona prendere i cavalli o i muli dall’armento e domarli, e prendere un bove e sgozzarlo, scuoiarlo e squartarlo; ma in Sicilia è brutto e opera di schiavi. Presso i Macedoni si ritiene bello che le fanciulle prima di sposarsi amino e si congiungano con un uomo, e dopo le nozze, brutto; presso i Greci, è brutta l’una e l’altra cosa. Presso i Traci, il tatuaggio per le fanciulle è un ornamento; presso gli altri popoli, invece, è una pena che si impone ai colpevoli. […] I Persiani reputano bello che anche gli uomini si adornino come le donne, e si congiungano con la figlia, con la madre, con la sorella; per i Greci son cose turpi e contro la legge. Presso i Lidi, che le fanciulle si sposino dopo essersi prostituite per denaro, sembra bello; presso i Greci, nessuno le vorrebbe sposare. […] E io credo che se si comandasse a tutti gli uomini di riunire in un fascio le cose che ciascun di essi reputa cattive, e poi dopo di togliere dal gruppo quello che ciascun d’essi reputa belle, non ce ne rimarrebbe neppur una , ma tra tutti se le ripiglierebbero tutte. Poiché nessuno la pensa come un altro”.
Sostituendo agli aggettivi “bello” e “brutto”, che per noi hanno soprattutto un valore estetico, rispettivamente quelli di “giusto” e “ingiusto”, ci rendiamo conto che qui ci troviamo di fronte a quello che abbiamo chiamato relativismo etico/relativismo morale, a cui Protagora ha dato i natali filosofici. Con la sua teoria dell’homo mensura (“l’uomo è misura di tutte le cose, delle cose che sono in quanto sono e delle cose che non sono in quanto non sono”) Protagora ha affermato che non esiste una giustizia e una verità “assolute”, cioè “sciolte” dai vari punti di vista, ma ogni verità, o ideale, o modello di comportamento è “relativa” a chi giudica nell’ambito di una certa situazione. Questo relativismo, quindi, frantumando la realtà in una miriade di interpretazioni soggettive, distrugge il concetto di una verità unica, o di un unico sistema di valori validi per tutti e per sempre. Lo scritto Ragionamenti doppi ci propone di dimostrare che le stesse cose possono essere buone o cattive, belle o brutte, giuste o ingiuste.
“…gli uni dicono che altro è il bene, altro è il male; altri, invece, che sono la stessa cosa; la quale per alcuni sarebbe bene, per altri male; e per lo stesso individuo sarebbe ora bene, ora male...”.
Insomma, sembra che sia tutto pieno di ambiguità. In generale la bugia è una cosa “brutta”, “negativa”, perché distrugge la fiducia nella parola data e rende le persone nemiche; a volte però sembra che sia utile o produttivo mentire per fare un favore a qualcuno. Per esempio: a chi è affetto da un cancro incurabile è meglio dire la verità sul suo stato o è preferibile ingannarlo per lasciargli vivere serenamente l’ultima parte della sua vita? La bugia sembra una brutta cosa, ma a quanto pare, a volte sembra dare risultati positivi.
Quindi non esiste un criterio assoluto per stabilire che cosa sia “giusto” e “ingiusto” e tutto dipende dalle circostanze. Sentite che cosa scrive il filosofo spagnolo Fernando Savater nel suo ottimo libro “Etica per un figlio”: “Già abbiamo detto che non conviene cercare la rissa, ma allora dobbiamo permettere che una ragazza sia violentata davanti a noi senza intervenire per evitare problemi?” Individuare ciò che è giusto e, di conseguenza, ciò che è sbagliato, continua Savater “non è così facile, perché esistono criteri diametralmente opposti riguardo a quello che bisogna fare”. Che confusione!!!!
Inoltre, il relativismo culturale ed etico, è un tema di grande e profondo interesse, soprattutto adesso, un periodo della storia in cui fenomeni come la mondializzazione politica ed economica e i flussi migratori verso l’Occidente producono sempre più società multietniche, che a loro volta sollevano problemi di convivenza e di incontri di culture (e quindi norme, modalità di comportamento, regole) diverse fra loro.
Quale è la vostra posizione sul relativismo etico e culturale? E’ davvero tutto così relativo? E’ giusto, a tuo avviso, rispettare sempre e comunque i valori delle altre culture? E se queste violano alcuni fondamentali diritti umani (pensate al caso della lapidazione di Sakineh in Iran…spero ne abbiate sentito parlare)? Inoltre se tutto è relativo, allora non è mai possibile trovare una serie di principi su cui è possibile l’universale accordo? Oppure si? Buona riflessione a tutti e a tutte.
P.S. L’italiano è una lingua bellissima, musicale, intensa, con infinite modulazioni. Non ingabbiate i vostri pensieri in una forma che li violenta e li svilisce. Non fate sì che la tecnologia, utile e comoda per tutti, sia una condanna per i vostri vocabolari e deturpi i vostri linguaggi. “Ke”, “+” “-“, “nn” lasciateli a Facebook e ai messaggi del cellulare. Date una forma corretta ai vostri pensieri. Sono così interessanti, non deformateli.
domenica 2 gennaio 2011
Deterministi o finalistici?


Vi sarà capitato, in certe condizioni di luce o da un particolare punto prospettico, di scorgere, o di credere di scorgere, sulla trama di una parete rocciosa, la sagoma di un volto, la forma di un animale, un disegno somigliante ad un oggetto reale. La stessa cosa la facciamo con le nuvole che passano, rintracciando nelle loro simmetrie e nelle loro forme immagini a noi più familiari. Guardiamo per esempio, questa roccia all’isola del Giglio, non lontano da noi. Non vi sembra il profilo di un uomo, con un naso sporgente e un cappello che gli cala sugli occhi? Come spiegare tale somiglianza? Qualcuno ritiene persino di riuscire a vedere nei fondi di caffè i segni di un misterioso “disegnatore”….ma se diffidiamo delle superstizioni, dell’occultismo e ci affidiamo alla forza della ragione, di fronte al signore col cappello sulla roccia dell’isola toscana non possiamo che ricorrere a una sola spiegazione plausibile: si tratta di una bizzarra causalità.
Prendiamo ora in parte un caso solo in parte simile: siamo nel South Dakota, su una parete del Monte Rushmore, dove sono raffigurati i volti di Washington, Jefferson, Lincoln e Roosevelt (quattro famosi presidenti degli Stati Uniti d’America). Possono essere interpretati come il frutto causale delle piogge che si sono abbattute sul massiccio montuoso delle Black Hills? La risposta è ovviamente negativa, perché sono stati progettati nel 1941 da Gutzon Burglum, un artista americano.
Diversamente dall’uomo col cappello, questi volti presuppongono qualcuno, in questo caso uno scultore, che li ha pensati e realizzati. In questo caso la materia e il caso non bastano a fornire la spiegazione della loro esistenza, occorre chiamare in causa una intelligenza e uno scopo che ne orienta l’azione.
Applichiamo queste categorie (la materia e il caso da un lato e l’intelligenza e lo scopo dall’altro) alla comprensione del mondo nel suo complesso: esso è paragonabile a un meccanismo mosso da un’energia cieca e senza scopo, o piuttosto è simile a un’opera di ingegno – ad esempio un orologio – che presuppone un costruttore intelligente? Si tratta di una disputa antica e, in un certo senso, perenne.
La questione, infatti, ha origini antiche e può essere schematicamente formulata in questi termini:
1. Per alcuni (il più importante dei quali è senza dubbio Democrito) l’universo, i processi cosmici e l’uomo stesso vanno considerati come un evento CASUALE di aggregazione della materia. La natura non va interpretata ricorrendo all’ipotesi di una intelligenza ordinatrice che ha organizzato il mondo secondo uno scopo e un progetto ma va interpretata con la convinzione che tutto ciò che accade è determinato da una sequenza di cause e di effetti: la materia, la natura, si organizzano in modo automatico, casuale (come in modo casuale si è organizzata la roccia dell’isola del Giglio!)
2. Per altri (e su questo fronte il rappresentante principale è Platone, ma ha avuto un “antenato” in Anassagora) la realtà naturale si spiega solo ricorrendo a un principio SOPRA-SENSIBILE, non materiale, che trascende la materia. Questa, infatti, essendo caotica e inerte, non è capace di auto-organizzarsi, ma esige l’intervento di una intelligenza che le dia forma e la organizzi in base a uno scopo. La natura, l’universo e, soprattutto, quel complesso organico vivente che è l’uomo, non è automatica e casuale, ma è un “artefatto”, ovvero il prodotto di un progetto intelligente (come i volti sul Monte Rushmore, realizzazione del progetto di uno scultore!).
Voi che ne dite? Già in classe abbiamo discusso vivacemente su questa alternativa, ma i tempi purtroppo stringono e sapete che, mio malgrado, sono sempre costretta a frenare le vostre riflessioni filosofiche. Provate a dare la vostra risposta al dilemma (caso o scopo? Ovviamente, adesso che avete imparato un po’ di lessico filosofico sapete che si può correttamente presentare l’alternativa nella forma determinismo/finalismo), ci torneremo poi più avanti, quando incontreremo altri personaggi che, dopo secoli, continueremmo a dibattere sulla questione.
lunedì 11 ottobre 2010
Buon pomeriggio, buonasera e buonanotte...Jim Carrey e Arthur Schopenhauer...
La maggior parte di noi crede che il mondo vero sia quello che vediamo, udiamo e sentiamo. Siamo sicuri che la realtà che ci circonda sia la vera realtà e questa convinzione è talmente ovvia e scontata che neppure ci soffermiamo a rifletterci. Chi mai oserebbe farne questione?
Anche Truman Burbank (Jim Carrey) crede con certezza di vivere a Seaheven e pensa di essere anche fortunato ad essere stato “gettato” dal destino in quell’isola, perché può godere di un clima ideale e vivere in un paradiso in cui non succede mai niente di brutto. Invece, il regno confortevole in cui Anderson crede di svolgere la sua vita ordinaria è di fatto un ampio, deliberato inganno e la sua amatissima Seahaven è, in realtà, un gigantesco set costruito dietro le colline di Hollywood, nel quale tutto è falso: i concittadini sono comparse, il mare è una grande piscina, gli eventi atmosferici sono prodotti dagli effetti speciali e l’orizzonte è un fondale di cartapesta. Sì perché Truman è, fin dal concepimento, scelto come “cavia mediatica” e la sua vita si svolge dentro un gigantesco set cinematografico in cui ogni istante della sua vita è spiato da 5000 telecamere e mandato in onda ventiquattro ore su ventiquattro in un reality televisivo di grande successo, di cui egli è il protagonista inconsapevole. Ideatore e deus ex machina dello spettacolo è il regista Christof che dirige tutto dalla falsa luna, sede dello studio di registrazione e che si crede onnipotente come un Dio. Fermiamoci qui.
Il film di Peter Weir non è, come molti pensano, una semplice denuncia sociologica dell’invadenza della televisione (per questo, andatevi a vedere “Quinto Potere” di Sidney Lumet), né tanto meno, una mera critica a trasmissioni insulse sul tipo del Grande fratello (a che serie siamo arrivati?). Infatti, sono possibili livelli di lettura molto più profondi, come ad esempio quello che vede nel lungometraggio di Weir la trascrizione filmica del conflitto tra totalitarismo (che vuole controllare i cittadini anche nella loro vita privata)e libertà individuale. In fondo, Seahaven è la realizzazione del Panopticon, il dispositivo carcerario ideato dal filosofo Jeremy Bentham alla fine del Settecento: chi vi soggiorna può essere osservato, ma non può osservare. Nel Panopticon le celle sono disposte a cerchio intorno a una torre centrale, cosicché possono essere sorvegliate da un solo guardiano, che vede tutto senza essere mai visto (e ci torneremo, sul Panopticon, perché ne parlerà Michel Foucault in “Sorvegliare e punire”).
L’interpretazione più suggestiva del film di Peter Weir è però di tipo gnoseologico: The Truman Show è infatti una metafora dei limiti della nostra conoscenza, che scambia per realtà ciò che invece è illusione (in questo ci richiama alla mente un altro film genuinamente filosofico, "Matrix" dei fratelli Larry e Andy Wackowski). Adesso spero che a questo punto vi sia venuto in mente René Descartes e le sue Meditazioni metafisiche (1641). “De omnibus dubitandum est”, scrive il filosofo francese, niente si sottrae al dubbio. E il dubbio è talmente “iperbolico” che Cartesio arriva non solo a dubitare delle conoscenze sensoriali, ma di ogni conoscenza, anche di quelle che appaiono certe e sicure. E se ci fosse un “genio maligno” a orchestrare l’intera nostra esperienza tenendoci costantemente nell’inganno? La nostra mente potrebbe essere stata creata, anziché da un Dio buono e perfetto come quello cristiano, da un genio maligno e furbo, intento solo ad ingannarci. Il genio-maligno di Descartes trova una sua rappresentazione cinematografica nel personaggio regista-demiurgo di Christof, il quale osserva “dal cielo”, cioè da una luna artificiale, il mondo fittizio che ha creato per Truman. Christof, intervistato da un giornalista televisivo, spiega come mai Truman non si sia accorto dell’inganno in cui vive da sempre. “Secondo lei – chiede l’intervistatore – per quale motivo Truman non è mai riuscito a scoprire la vera natura del mondo in cui ha vissuto finora?” “E’ molto semplice – risponde Christof – noi accettiamo la realtà del mondo così come si presenta”. In altre parole, ognuno di noi è prigioniero di una caverna platonica.
La realtà vera non è quella che viviamo, le cose che percepiamo con i sensi sono un inganno, un sogno, uno strano incantesimo di cui cadiamo facilmente vittime. Ed eccoci a Schopenhauer e alla sua tesi circa l’illusorietà del mondo che ci circonda. Il mondo sensibile è illusione, sogno, simulacro, è “velo di Maya”:
“è Maya, il velo ingannatore che avvolge gli occhi dei mortali e fa loro vedere un mondo del quale non può dirsi né che esista né che non esista: perché ella rassomiglia al sogno, rassomiglia al riflesso del sole sulla sabbia, che il pellegrino da lontano scambia per acqua; o anche rassomiglia alla corda gettata a terra che egli prende per un serpente” (Il mondo come volontà e rappresentazione, I, § 3).
Solo al di là del fenomeno si trova la realtà vera sulla quale l’uomo, “animale metafisico”, non può fare a meno di interrogarsi. Ma l’idea del sogno, presuppone l’idea del risveglio. Da un sogno deve essere possibile risvegliarsi, da un inganno deve essere possibile liberarsi. Dalla vita illusoria di Seahaven è possibile uscire: il mondo i cui vive Truman ha un fuori, è davvero un inganno.
Come l’uomo di Schopenhauer può lacerare il vero di Maya e cogliere l’essenza noumenica della realtà, anche Truman, una volta compresa l’illusorietà del mondo in cui vive, decide di conoscere ciò che finora gli è stato nascosto, avventurandosi in mare aperto per trovare il “passaggio” che lo può condurre al di là del velo di Maya. Il regista non mostra il destino che attende Truman dopo la scoperta della “cosa in sé”: Truman spalanca solo una porta sul buio e non sappiamo che cosa il protagonista troverà dall’altra parte. La speranza è che tale rivelazione non risulti tragica come nella filosofia di Schopenhauer, in cui la volontà di vivere si mostra come dolore universale.
La possibilità di un lieto fine è però messa in dubbio da Christof quando afferma che Seaheven è sì un posto in cui Truman è prigioniero, ma è anche un luogo felice nel quale egli non ha niente da temere, è il mondo come dovrebbe essere, una “farsa” sì, ma anche un rifugio che lo protegge. Invece la realtà autentica, quella in cui vivono gli altri, è si “vera”, ma “malata” e pericolosa. Ma è davvero l’infelicità il prezzo che si deve pagare per uscire dall’illusione? E’ davvero così pericoloso conoscere la verità ed essere liberi? Quando vi sentite vittime di illusioni? E quanto queste illusioni vi riscaldano e proteggono? Il nome “Truman”, letto in inglese, significa “uomo vero” (true man). Perché, secondo voi, Weir ha scelto questo nome per il protagonista?
lunedì 4 ottobre 2010
Tutto ha inizio dalla "paura"...
“Gli uomini, all’inizio come adesso, hanno preso lo spunto per filosofare dalla meraviglia, poiché dapprincipio essi si stupivano dei fenomeni più semplici e di cui essi non sapevano rendersi conto, e poi, procedendo a poco a poco, si trovarono di fronte a problemi più complessi, come i fenomeni riguardanti la Luna, il Sole, le stelle e l’origine dell’universo”.
Si trova, in questo brano aristotelico, un termine molto importante per la filosofia: “thauma” (meraviglia), a cui è legato il verbo “thaumazein” (provare meraviglia).
La meraviglia come origine della filosofia, dice Aristotele. E il suo maestro, Platone, aveva scritto nel “Teeteto”: “E’ proprio del filosofo essere pieno di meraviglia: e il filosofare non ha altro cominciamento che l’essere pieno di meraviglia”.
Purtroppo però, la traduzione con “meraviglia” non va affatto bene: la resa in italiano, che non possiede la ricchezza del greco antico, conduce ad un restringimento di significato assolutamente fuorviante.
Nella lingua greca “thauma” rimanda a qualcosa di minaccioso, di inquietante: Omero, ad esempio, descrive Polifemo come “un mostro che incita paura (thauma)”. Questa parola greca, che Aristotele pone all’inizio della filosofia, sta a significare anzitutto lo sgomento ancestrale nello scoprire il divenire di tutte le cose, la paura di fronte alla consapevolezza che il mondo, e noi con lui, è sottoposto ad un ciclo continuo di nascita e di morte, la volontà di trovare un rimedio alla fine, al nostro scivolare nel nulla.
Nessuno può sfuggire al divenire, nessuno può sfuggire alla trasformazione, alla generazione e alla corruzione (per usare, ancora una volta, termini cari ad Aristotele!). Che la cosa ci piaccia o no, siamo su questa giostra e dobbiamo correre la nostra corsa, insieme a tutto il resto…
La filosofia nasce quindi dal “thauma”, cioè dallo sguardo angosciato sul mondo preda del continuo divenire. Ed è proprio di fronte a questo divenire che si arrestarono i primi filosofi: di fronte alla molteplicità dei fatti e ai loro mutamenti continui, la filosofia si costituisce come ricerca di quell’elemento unitario che spieghi il senso e l’accedere complessivo della realtà della natura. La filosofia, come abbiamo visto in classe, inizia quando il pensiero inizia ad interrogarsi sulla natura delle cose, sul loro principio di vita, sul principio regolatore che ne stabilisce l’ordine e le leggi. “Che cosa sono le cose che ci circondano e quale la loro origine?” E’ possibile trovare qualcosa che si sottragga alla molteplicità e al divenire, che possa sottrarsi a questo destino di morte e cui noi, in quanto individui, non possiamo sfuggire?
A queste domande, che avevano da sempre interessato l’uomo, rispondono i primi filosofi: Talete, Anassimandro, Anassimene, i Pitagorici, Eraclito, Parmenide, i fisici pluralisti, ossia quei filosofi che vengono indicati con l’etichetta “presocratici”. Prima di loro la risposta consisteva nel racconto mitico che narrava in forma poetica la nascita del mondo, mentre adesso si cerca una risposta diversa, affrontando la questione con un atteggiamento teso a spiegare razionalmente la realtà. Ad un certo punto, in un preciso momento della storia della nostra civiltà, cioè nella Grecia del VII secolo a.C., l’uomo ha cessato di accontentarsi delle parole del mito, delle sue risposte e dei suoi rimedi alla paura della morte e ha cercato le risposte della filosofia.
Le soluzioni che forniscono possono sembrare ingenue, ma la domanda a cui cercano una risposta, per quanto millenaria, è ancora viva e vegeta. In attesa di una soluzione che, forse, non arriverà mai.
Giganti o gnomi?
Abbiamo iniziato l’avventura della filosofia e siamo partiti dall’inizio, da quella “antica”.
Dopo Bodei, che ci dice che “la filosofia non serve a nulla”, per fortuna ci viene in soccorso un altro bravissimo professore di filosofia: Maurizio Ferraris. Oltre ad insegnare all’Università di Torino ed a scrivere libri interessanti, Ferraris si è prestato a registrare alcune lezioni, pubblicate in una serie di DVD per la rivista “L’Espresso”, proprio lo scorso anno. Il video con cui inizia questa riflessione è tratto proprio da lì. L’iniziativa editoriale inizia, ovviamente, con una lezione sui “Presocratici” ed è proprio sulle insidie e i tranelli nascosti dietro questa etichetta che Ferraris vuole metterci in guardia. “Presocratici”, non vuol certo dire “precursori”, “tristi predecessori”, non vuole battezzare questi filosofi (che pensarono prima della rivoluzione socratica) come degli opachi e smunti iniziatori di qualcosa che solo successivamente si rafforzerà e diventerà grande. Non restiamo vittime di un abbaglio: con i presocratici non ci troviamo nell’anticamera della filosofia, in attesa di varcare la soglia di un grande palazzo, con stanze ampie e ariose. Con i presocratici siamo già dentro una filosofia che, sebbene avrà occasione di maturare, pone alla nostra attenzione problemi che hanno una storia vecchia come il mondo.
Ma da cosa deriva questo abbaglio? Una convinzione molto diffusa è che ciò che appartiene all’antichità sia qualcosa di più “piccolo”, di più “modesto”, rispetto a ciò che è moderno o contemporaneo. E’ come se nel concetto di “antico” vi fosse inclusa l’idea che l’antichità corrisponda alla nascita, ai primi gemiti, ai primi respiri e che quindi necessiti di crescere e di maturare per raggiungere adeguati livelli, per parlare e respirare da adulto.
Invece, per la filosofia, è successo proprio il contrario. Ma c’è voluto un filosofo della statura di Martin Heidegger (ari-eccolo!!!!) perché la verità sull’importanza del pensiero antico venisse espressa adeguatamente e con autorità. A giusta ragione, infatti, egli sostiene che la “filosofia antica è nata grande”; nella “Introduzione alla metafisica”, Heidegger scrive:
“[…] qui si tratta della filosofia, vale a dire di una delle poche cose grandi di cui l’uomo è capace. Ora, ogni grande cosa può avere solo un grande inizio. Il suo inizio è sempre la cosa più grande […] Tale è la filosofia dei Greci”.
Si parte in quinta, allora. Non abbiamo avuto neppure il tempo per il rodaggio.
Eppure a noi queste risposte sembrano così fantasiose, così inverosimili e bizzarre. Altro che “grande” la filosofia della Grecia! Sembrano proprio dei vagiti queste teorie sull’archè…l’acqua, l’ápeiron, l’aria…e chissà quante altre ne inventeranno!
Davvero ci sembra una perdita di tempo studiare questi tipi strani, che non guardano neppure dove mettono i piedi, e che cadono nei pozzi per formulare ipotesi così stravaganti e sconclusionate!
Ma lasciamo un attimo la filosofia e volgiamoci a pagine di letteratura. Per inaugurare queste riflessioni dei primi filosofi, vi lascio una pagina di Erri de Luca, a cui devo letture indimenticabili:
In una voce di “Alzaia”, intitolata “Gnomi”, lo scrittore napoletano scrive:
“Archelao di Atene, maestro di Socrate, credeva che i terremoti fossero sfogo di vento compresso sottoterra. Democrito credeva invece che fossero flussi di acque sotterranee. Anassagora di Clazomene vide il cielo come una volta di pietre incastrare, soggette a cedimenti e crolli. […]
Diogene di Apollonia disse che il sole era come una pietra pomice e in esso si fissavano i raggi dell’etere. Leucippo affermò che la terra era un tamburo. Per Democrito era invece a forma di disco, concava nel mezzo. Posidonio e Dionisio conclusero che la terra era a forma di fionda.
Oggi sappiamo che sbagliavano, però scrutavano il mondo con tutti i sensi, lo meditavano per intero e abitavano la natura. Possedevano in loro tutti i punti del sapere di allora, conoscevano le stelle come le facce dei loro cari, predicevano eclissi e comete, affacciati sull’universo, nell’impresa di prevederlo. Noi siamo accampati in stanze protette contro la notte, il suolo e lo spazio aperto. Ci occupiamo di frammenti di ricerca sempre più minuscoli. Siamo gnomi nei confronti dei loro pensieri imprecisi, ma profondi, scaturiti da notti intere trascorse su terrazze e tetti a ragionare di infinito” (Erri De Luca, Alzaia).
mercoledì 22 settembre 2010
Le parole sono importanti
Torniamo sul linguaggio. Questo filmato è tratto da “Palombella rossa”, un film di un regista italiano che amo molto, Nanni Moretti (è un regista in gamba, ma che ha fatto film anche molto difficili….).
Due dei filosofi che abbiamo incontrato finora, Martin Heidegger e Antonio Gramsci ne parlano, ne fanno oggetto delle loro riflessioni. Abbiamo visto che Gramsci, nel brano che abbiamo letto in classe, sostiene che l’uomo “appartiene” ad un mondo, e quindi anche ad una visione del mondo”, anche solo per il fatto di parlare un linguaggio anziché un altro. Il linguaggio lo assorbiamo dalla nascita, lo facciamo nostro, anche se nostro non è.
Il linguaggio, infatti, non solo è uno strumento con cui comunichiamo, ma è anche sistema mediante il quale gli uomini descrivono, comprendono e comunicano il proprio mondo, se stessi ed il modo di relazionarsi con gli altri. Il linguaggio è, inoltre, strettamente connesso con il pensiero ed è utilizzato non solo per comunicare con se stessi e con gli altri, ma anche per forgiare l’intera visione del mondo. Come affermano i teorici della relatività linguistica, il mondo si presenta, infatti, come un flusso di impressioni che deve essere organizzato dal sistema linguistico, il quale cela in sé una metafisica, una Weltanshaung, una cultura.
Scrive il linguista statunitense Edward Sapir: “Alla domanda se si possa pensare facendo a meno del linguaggio la maggior parte delle persone risponderebbe di sì […]; l’impressione che molti hanno di poter pensare o addirittura ragionare senza la lingua è un’illusione […]. In effetti, appena noi tentiamo di stabilire una consapevole relazione tra un’immagine e l’altra, ci accorgiamo che stiamo scivolando in un flusso di parole silenziose” (E. Sapir, Il linguaggio, 1969). Non lo ha detto anche Moretti? “Chi parla male, pensa male”?
E’ il linguaggio che parla, in realtà, non noi. “E’ quindi al linguaggio che va lasciata la parola”, scrive Heidegger in una sua opera intitolata In cammino verso il linguaggio.
La connessione strettissima fra pensiero e linguaggio, ad esempio è stata sostenuta dal filosofo Ludwig Wittgenstein, secondo cui “i limiti del linguaggio sono i limiti del mio mondo” idea questa che ci indica chiaramente come al pensabile debba necessariamente corrispondere una parola. Laddove la parola manca, quindi, manca anche il pensiero, e l’analisi del linguaggio può quindi fornirci molte informazioni sulla cultura di cui è veicolo. “Nessuna cosa è (sia) dove la parola manca”, recita una poesia di Stefan George, indicandoci, questa volta con il linguaggio poetico, lo strettissimo rapporto fra parola e cosa, il ruolo annunciatore del linguaggio, che svela, chiama qualcosa ad essere.
E pensiamo a George Orwell che, nella società distopica di 1984, attribuisce alla manipolazione della lingua la funzione di eliminare ogni pensiero contrario all’ideologia dominante. La Neolingua orwelliana viene costruita, attraverso una progressiva eliminazione delle parole, per eliminare ogni pensiero in contrasto con la dittatura: “Giunti che saremo alla fine, renderemo il delitto di pensiero, ovvero lo psicoreato, del tutto impossibile perché non ci saranno più parole per esprimerlo”.
Noi stiamo per andare ad ampliare i limiti del nostro linguaggio, quindi stiamo andando ad ampliare i limiti del nostro mondo. Le parole sono importanti, non sono qualcosa di secondario.
Conoscete Don Milani? Era una sacerdote molto coraggioso che negli anni Sessanta costruì una scuola per i figli dei contadini e degli operai a Barbiana, nel Mugello, vicino Firenze. E sapete che cosa diceva ai suoi ragazzi? “Una parola che non sapete oggi, è un calcio in culo che prenderete domani”.
Kant, Kafka, Montale: uomini, scimmie, gabbie, caverne e reti...
Ci siamo lasciati con la parola libertà. Forse è proprio la libertà che fa la differenza, la libertà di scegliere, il più autonomamente possibile (ma è possibile????). Sentite cosa scrive della libertà Zygmunt Bauman, nel 1988: “La libertà nacque come privilegio e tale è rimasta da allora. La libertà divide e separa. Separa i migliori dal resto. Deriva il suo fascino dalla differenza: la sua presenza o la sua assenza riflettono, segnano e stabiliscono il contrasto fra ciò che è alto e ciò che è basso, fra ciò che è bene e ciò che è male, fra ciò che è desiderabile e ciò che è ripugnante” (Z. Bauman, La libertà).
Duecento anni prima, un filosofo prussiano di nome Immanuel Kant, pubblicava su una rivista un saggio dal titolo “Che cos’è l’illuminismo?”, dove dava una strana definizione, che possiamo definire di tipo etico-esistenziale:
“L’illuminismo é l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità che egli deve imputare a se stesso. Minorità é l’incapacità di servirsi del proprio intelletto senza la guida di un altro. Imputabile a se stessi é questa minorità se la causa di essa non dipende da difetto di intelligenza, ma dalla mancanza di decisione e del coraggio di servirsi del proprio intelletto senza essere guidati da un altro. Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza! E’ questo il motto dell' illuminismo”.
Decisione e coraggio, parole centrali in questo passo kantiano. Appare qui con estrema chiarezza che Kant definisce l’illuminismo come una fuga, un’uscita, un esito. L’illuminismo è lasciarsi indietro un mondo e spingersi a vele aperte verso qualcosa di ignoto e, per questo, pericoloso.
Continua Kant:
“La pigrizia e la viltà sono le cause per cui tanta parte degli uomini, dopo che la natura li ha da lungo tempo fatti liberi da direzione estranea (naturaliter maiorennes), rimangono ciò nondimeno volentieri per l’intera vita minorenni, per cui riesce facile agli altri erigersi a loro tutori. E' tanto comodo essere minorenni! Se ho un libro che pensa per me,un direttore spirituale che ha coscienza per me, un medico che decide per me sulla dieta che mi conviene, ecc., io non ho più bisogno di darmi pensiero da me. Purchè io sia in grado di pagare, non ho bisogno di pensare: altri si assumeranno per me questa noiosa occupazione”.
E’ comodo essere minorenni, è comodo affidarsi al pensiero altrui, è comodo rinunciare a quello che Gramsci chiama “il lavorio del proprio cervello”. Ma non è che scegliendo questa comodità ci abbassiamo al livello dei bruti, come diceva Pico, anziché innalzarsi al livello di Dio? Kant rimanda tutto all’individuo, al coraggio che l’individuo deve trovare per liberarsi dallo stato di minorità. Ma siamo sicuri che sia così semplice come Kant ci vuole far credere? Ma non è che, per caso, dentro la minorità, non solo ci stiamo comodamente, ma non sappiamo di esserci? Siamo sicuri che non abbiamo così tanto “naturalizzato” questa condizione da non essere più in grado di riconoscerla?
Mi viene in mente Kafka. In Relazione per un’Accademia, la scimmia Rotpeter è diventata un uomo a tutti gli effetti, tanto che racconta davanti all’Accademia la storia della sua trasformazione, della sua “umanizzazione”, dal momento in cui fu catturata al momento in cui imparò a parlare e ad essere dunque accettata dalla nobile comunità degli umani. Dopo la cattura, la scimmia si svegliò in una gabbia, troppo bassa per stare in piedi e troppo stretta per stare seduta (allora se la usiamo come simbolo della minorità, non mi pare così tanto comoda!!!!), Osserva l’ex scimmia:
“Si ritiene vantaggioso custodire le bestie in questo modo nei primi tempi della prigionia; e oggi, in base alla mia esperienza, non posso negare che, umanamente parlando, sia effettivamente così”.
Gli animali sono in questo modo ammorbiditi e disponibili a ricevere l’ammaestramento. Cosa effettivamente li dispone a ciò? L’impossibilità di una via d’uscita. L’ex scimmia aveva sì scoperto una fessura, ma proprio di fessura si trattava, insufficiente a far passare persino la coda. In una condizione siffatta:
“O sarei morto presto e, se fossi riuscito a sopravvivere a sopravvivere al primo periodo critico, sarei stato molto facile da ammaestrare”.
In una situazione come questa descritta da Kafka, alla domanda se l’uscita dalla minorità sia tutta da attribuire alla volontà individuale, alla decisione e al coraggio di cui parla Kant, la risposta è negativa, perché l’uscita dalla minorità, la ricerca di “una maglia rotta nella rete”, è assolutamente impossibile. Alla scimmia non resta che lasciarsi ammaestrare, non resta che diventare uomo, non resta che mimetizzarsi e accettare l’assimilazione che le viene richiesta, assimilazione alle sue leggi, alle sue regole, non resta che farsi “colonizzare”. A questo punto l’uscita dalla minorità diventa solamente apparente.
Voi chi scegliete tra Kant e Kafka? Siamo sicuri che sia così semplice trovare un’uscita, una fuga, quell’Ausgang di cui parla il filosofo dell’Illuminismo? Non è che siamo imprigionati in una caverna, incatenati fin da piccoli, a tal punto che sia impossibile riconoscere la nostra condizione come innaturale? Ma alle caverne torneremo con Platone, caverna che, illuminata dalle parole di Kant, vedremo con maggiore luce.
“Cerca una maglia rotta nella rete
Che ci stringe, tu balza fuori, fuggi!
Va, per te l’ho pregato. Ora la sete
Mi sarà lieve, meno acre la ruggine”
(Eugenio Montale, In limine)