mercoledì 22 settembre 2010
Le parole sono importanti
Torniamo sul linguaggio. Questo filmato è tratto da “Palombella rossa”, un film di un regista italiano che amo molto, Nanni Moretti (è un regista in gamba, ma che ha fatto film anche molto difficili….).
Due dei filosofi che abbiamo incontrato finora, Martin Heidegger e Antonio Gramsci ne parlano, ne fanno oggetto delle loro riflessioni. Abbiamo visto che Gramsci, nel brano che abbiamo letto in classe, sostiene che l’uomo “appartiene” ad un mondo, e quindi anche ad una visione del mondo”, anche solo per il fatto di parlare un linguaggio anziché un altro. Il linguaggio lo assorbiamo dalla nascita, lo facciamo nostro, anche se nostro non è.
Il linguaggio, infatti, non solo è uno strumento con cui comunichiamo, ma è anche sistema mediante il quale gli uomini descrivono, comprendono e comunicano il proprio mondo, se stessi ed il modo di relazionarsi con gli altri. Il linguaggio è, inoltre, strettamente connesso con il pensiero ed è utilizzato non solo per comunicare con se stessi e con gli altri, ma anche per forgiare l’intera visione del mondo. Come affermano i teorici della relatività linguistica, il mondo si presenta, infatti, come un flusso di impressioni che deve essere organizzato dal sistema linguistico, il quale cela in sé una metafisica, una Weltanshaung, una cultura.
Scrive il linguista statunitense Edward Sapir: “Alla domanda se si possa pensare facendo a meno del linguaggio la maggior parte delle persone risponderebbe di sì […]; l’impressione che molti hanno di poter pensare o addirittura ragionare senza la lingua è un’illusione […]. In effetti, appena noi tentiamo di stabilire una consapevole relazione tra un’immagine e l’altra, ci accorgiamo che stiamo scivolando in un flusso di parole silenziose” (E. Sapir, Il linguaggio, 1969). Non lo ha detto anche Moretti? “Chi parla male, pensa male”?
E’ il linguaggio che parla, in realtà, non noi. “E’ quindi al linguaggio che va lasciata la parola”, scrive Heidegger in una sua opera intitolata In cammino verso il linguaggio.
La connessione strettissima fra pensiero e linguaggio, ad esempio è stata sostenuta dal filosofo Ludwig Wittgenstein, secondo cui “i limiti del linguaggio sono i limiti del mio mondo” idea questa che ci indica chiaramente come al pensabile debba necessariamente corrispondere una parola. Laddove la parola manca, quindi, manca anche il pensiero, e l’analisi del linguaggio può quindi fornirci molte informazioni sulla cultura di cui è veicolo. “Nessuna cosa è (sia) dove la parola manca”, recita una poesia di Stefan George, indicandoci, questa volta con il linguaggio poetico, lo strettissimo rapporto fra parola e cosa, il ruolo annunciatore del linguaggio, che svela, chiama qualcosa ad essere.
E pensiamo a George Orwell che, nella società distopica di 1984, attribuisce alla manipolazione della lingua la funzione di eliminare ogni pensiero contrario all’ideologia dominante. La Neolingua orwelliana viene costruita, attraverso una progressiva eliminazione delle parole, per eliminare ogni pensiero in contrasto con la dittatura: “Giunti che saremo alla fine, renderemo il delitto di pensiero, ovvero lo psicoreato, del tutto impossibile perché non ci saranno più parole per esprimerlo”.
Noi stiamo per andare ad ampliare i limiti del nostro linguaggio, quindi stiamo andando ad ampliare i limiti del nostro mondo. Le parole sono importanti, non sono qualcosa di secondario.
Conoscete Don Milani? Era una sacerdote molto coraggioso che negli anni Sessanta costruì una scuola per i figli dei contadini e degli operai a Barbiana, nel Mugello, vicino Firenze. E sapete che cosa diceva ai suoi ragazzi? “Una parola che non sapete oggi, è un calcio in culo che prenderete domani”.
Kant, Kafka, Montale: uomini, scimmie, gabbie, caverne e reti...
Ci siamo lasciati con la parola libertà. Forse è proprio la libertà che fa la differenza, la libertà di scegliere, il più autonomamente possibile (ma è possibile????). Sentite cosa scrive della libertà Zygmunt Bauman, nel 1988: “La libertà nacque come privilegio e tale è rimasta da allora. La libertà divide e separa. Separa i migliori dal resto. Deriva il suo fascino dalla differenza: la sua presenza o la sua assenza riflettono, segnano e stabiliscono il contrasto fra ciò che è alto e ciò che è basso, fra ciò che è bene e ciò che è male, fra ciò che è desiderabile e ciò che è ripugnante” (Z. Bauman, La libertà).
Duecento anni prima, un filosofo prussiano di nome Immanuel Kant, pubblicava su una rivista un saggio dal titolo “Che cos’è l’illuminismo?”, dove dava una strana definizione, che possiamo definire di tipo etico-esistenziale:
“L’illuminismo é l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità che egli deve imputare a se stesso. Minorità é l’incapacità di servirsi del proprio intelletto senza la guida di un altro. Imputabile a se stessi é questa minorità se la causa di essa non dipende da difetto di intelligenza, ma dalla mancanza di decisione e del coraggio di servirsi del proprio intelletto senza essere guidati da un altro. Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza! E’ questo il motto dell' illuminismo”.
Decisione e coraggio, parole centrali in questo passo kantiano. Appare qui con estrema chiarezza che Kant definisce l’illuminismo come una fuga, un’uscita, un esito. L’illuminismo è lasciarsi indietro un mondo e spingersi a vele aperte verso qualcosa di ignoto e, per questo, pericoloso.
Continua Kant:
“La pigrizia e la viltà sono le cause per cui tanta parte degli uomini, dopo che la natura li ha da lungo tempo fatti liberi da direzione estranea (naturaliter maiorennes), rimangono ciò nondimeno volentieri per l’intera vita minorenni, per cui riesce facile agli altri erigersi a loro tutori. E' tanto comodo essere minorenni! Se ho un libro che pensa per me,un direttore spirituale che ha coscienza per me, un medico che decide per me sulla dieta che mi conviene, ecc., io non ho più bisogno di darmi pensiero da me. Purchè io sia in grado di pagare, non ho bisogno di pensare: altri si assumeranno per me questa noiosa occupazione”.
E’ comodo essere minorenni, è comodo affidarsi al pensiero altrui, è comodo rinunciare a quello che Gramsci chiama “il lavorio del proprio cervello”. Ma non è che scegliendo questa comodità ci abbassiamo al livello dei bruti, come diceva Pico, anziché innalzarsi al livello di Dio? Kant rimanda tutto all’individuo, al coraggio che l’individuo deve trovare per liberarsi dallo stato di minorità. Ma siamo sicuri che sia così semplice come Kant ci vuole far credere? Ma non è che, per caso, dentro la minorità, non solo ci stiamo comodamente, ma non sappiamo di esserci? Siamo sicuri che non abbiamo così tanto “naturalizzato” questa condizione da non essere più in grado di riconoscerla?
Mi viene in mente Kafka. In Relazione per un’Accademia, la scimmia Rotpeter è diventata un uomo a tutti gli effetti, tanto che racconta davanti all’Accademia la storia della sua trasformazione, della sua “umanizzazione”, dal momento in cui fu catturata al momento in cui imparò a parlare e ad essere dunque accettata dalla nobile comunità degli umani. Dopo la cattura, la scimmia si svegliò in una gabbia, troppo bassa per stare in piedi e troppo stretta per stare seduta (allora se la usiamo come simbolo della minorità, non mi pare così tanto comoda!!!!), Osserva l’ex scimmia:
“Si ritiene vantaggioso custodire le bestie in questo modo nei primi tempi della prigionia; e oggi, in base alla mia esperienza, non posso negare che, umanamente parlando, sia effettivamente così”.
Gli animali sono in questo modo ammorbiditi e disponibili a ricevere l’ammaestramento. Cosa effettivamente li dispone a ciò? L’impossibilità di una via d’uscita. L’ex scimmia aveva sì scoperto una fessura, ma proprio di fessura si trattava, insufficiente a far passare persino la coda. In una condizione siffatta:
“O sarei morto presto e, se fossi riuscito a sopravvivere a sopravvivere al primo periodo critico, sarei stato molto facile da ammaestrare”.
In una situazione come questa descritta da Kafka, alla domanda se l’uscita dalla minorità sia tutta da attribuire alla volontà individuale, alla decisione e al coraggio di cui parla Kant, la risposta è negativa, perché l’uscita dalla minorità, la ricerca di “una maglia rotta nella rete”, è assolutamente impossibile. Alla scimmia non resta che lasciarsi ammaestrare, non resta che diventare uomo, non resta che mimetizzarsi e accettare l’assimilazione che le viene richiesta, assimilazione alle sue leggi, alle sue regole, non resta che farsi “colonizzare”. A questo punto l’uscita dalla minorità diventa solamente apparente.
Voi chi scegliete tra Kant e Kafka? Siamo sicuri che sia così semplice trovare un’uscita, una fuga, quell’Ausgang di cui parla il filosofo dell’Illuminismo? Non è che siamo imprigionati in una caverna, incatenati fin da piccoli, a tal punto che sia impossibile riconoscere la nostra condizione come innaturale? Ma alle caverne torneremo con Platone, caverna che, illuminata dalle parole di Kant, vedremo con maggiore luce.
“Cerca una maglia rotta nella rete
Che ci stringe, tu balza fuori, fuggi!
Va, per te l’ho pregato. Ora la sete
Mi sarà lieve, meno acre la ruggine”
(Eugenio Montale, In limine)
Inautentici o autentici? Questo è il problema...
L’uomo è scaraventato sulla terra, costretto ad abitare questo mondo e non un altro, a respirarne la cultura, la visione del mondo, ad assorbirne i pregiudizi. Quando Heidegger afferma che l'esserci ha già una certa comprensione del mondo, contrassegnata anche da una particolare situazione affettiva, intende dire che l'esserci incontra il mondo sempre alla luce di certe idee, di certi preconcetti che ha respirato nel contesto socio-culturale in cui è “gettato” e si trova a vivere. La preliminare comprensione l’uomo ha del mondo coincide, quindi, con l'adesione immediata e spontanea, e quindi acritica, ad un mondo storico e sociale che ci precede e che è caratterizzato da un insieme di idee e di pregiudizi , cioè da un determinato modo di percepire e valutare le cose.
Ad Heidegger fa eco Antonio Gramsci in una pagina molto densa dei suoi Quaderni dal carcere: “Per la propria concezione del mondo si appartiene sempre ad un determinato raggruppamento, e precisamente a quello di tutti gli elementi sociali che condividono uno stesso modo di pensare e di operare. Si è conformisti di un qualche conformismo, si è sempre uomini-massa o uomini-collettivi”. Ognuno di noi, in altri termini, ha assorbito, insieme al linguaggio, che già “contiene una determinata concezione del mondo”, precisa Gramsci, un insieme di valori, di norme, di comportamenti.
Certo l’omerico Ettore che, nell’Iliade, aspetta Achille, furioso campione degli Achei, per scontrarsi con lui, pur sapendo che questi è più forte di lui e che probabilmente lo ucciderà, non è “programmato” dalla natura per combattere, per fare l’eroe, non è affidato necessariamente a quel destino. Ettore avrebbe potuto darsi malato, o dire che non aveva voglia di affrontare uno più forte di lui. Avrebbe potuto travestirsi da donna e fuggire, oppure inventare una nuova religione che diceva che non bisogna lottare contro i nemici ma porgere l’altra guancia quando ci schiaffeggiano. Certo però, se ci pensiamo bene, anche se questi comportamenti non sono “impossibili” (mentre un castoro che fa alveari e un’ape che costruisce dighe lo è….), sarebbero però da considerare alquanto strani. Perché Ettore apparteneva ad un mondo e non ad un altro ed era stato educato in base a certe tradizioni, abitudini, moduli di comportamento, leggende…in poche parole fin dalla culla ad Ettore, come ad ognuno di noi, è stata inculcata la fedeltà a certe cose e non ad altre. Ettore era stato educato fin da piccolo ad essere un buon guerriero al servizio della sua città e gli avevano detto che la vigliaccheria è una cosa abominevole, indegna di un uomo. Insomma, anche lui, in un modo meno forte, era programmato culturalmente ad agire così. Pensate che Ettore avrebbe potuto dire “andate al diavolo!”, oppure no? Voi che dite? Quanto è forte, in ognuno di noi, il condizionamento culturale?
Ma torniamo ad Heidegger, dopo aver ringraziato Fernando Savater che mi ha prestato questo esempio omerico nel suo bel libro “Etica per un figlio” (libro che, come si capisce dal titolo parla di etica, cioè di una branca della filosofia. Libro che, tra l’altro, vi consiglio, fa sicuramente riflettere…).
L’essere gettato, per il filosofo tedesco, fa inevitabilmente scadere la nostra esistenza nell'inautenticità di un atteggiamento anonimo, nel riconoscimento in una specie di io collettivo, quello del “si” impersonale. L’uomo, infatti, ha una spontanea tendenza a comprendere il mondo secondo la mentalità collettiva, a pensare quello che comunemente “si” pensa, a dire quello che solitamente “si” dice, ovvero a vivere quello che Heidegger chiama il mondo del “si” impersonale, dove ognuno di noi si mimetizza, perde i propri contorni, diventa irrilevante. Nella vita quotidiana, dove domina incontrastata una dimensione inautentica, ognuno è come l'altro, l'uomo non è se stesso, ma è tutti e nessuno, poiché è calato in una dimensione in cui dominano incontrastati il “si dice” e il “si fa”. Vengono alla mente le parole di uno scrittore tedesco che, in un modo penetrante e diretto, ha descritto la stessa opacità dell’uomo, il suo perdersi nell’anonimato del pensare comune. Pochi anni dopo la pubblicazione di Essere e tempo, Robert Musil così descriveva l’uomo del suo tempo:
«“E’ molto apprezzabile che un uomo, ai nostri tempi, aspiri ancora ad essere completo”. “Macchè, non è possibile”, opinò Ulrich. “Prova a dare un’occhiata al giornale. E’ assolutamente impenetrabile. Vi si parla di tante cose, che non basterebbe il cervello di un Leibniz per capirle. Ma non ce ne accorgiamo nemmeno; siamo diventati diversi. Non c’è più un uomo completo di fronte ad un mondo completo, ma un qualche cosa di umano che si muove in un comune liquido nutritivo» (R. Musil, L’uomo senza qualità).
Alle parole della letteratura fanno eco quelle della filosofia:
«Il Si, come risposta al problema del Chi dell’esserci quotidiano, è il nessuno a cui ogni esserci si è abbandonato nell’indifferenza del suo essere-assieme» [M. Heidegger, Essere e tempo].
Nelle pagine di Essere e tempo troviamo la descrizione di un Esserci che non vive del suo proprio “poter-essere”, ma viene vissuto da parte del “si”: “ognuno è gli altri, nessuno è se stesso”, scrive Heidegger. Questi “nessuno” si muovono su un comune palcoscenico e recitano una parte spettrale, che altri hanno scritto per loro. L'uomo, infatti, in questa dimensione dell’inautenticità si allontana da sé, coprendo le potenzialità che lo caratterizzano, appiattendo il poter-essere sull'essere del “si”: noi non possiamo sfuggire a questa mentalità generica ed impersonale, non possiamo cioè evitare di essere legati a questo modo, anonimo ed irresponsabile, di interpretare le cose:
Come si definisce, allora, in contrapposizione a ciò, l'esistenza autentica? L'autenticità opera, rispetto all’inautenticità, una sorta di contro-movimento: quello grazie al quale l'essere si definisce autenticamente come possibilità e sceglie il poter-essere più proprio. L'autenticità è come una seconda nascita, è un venire di nuovo al mondo, poichè consiste nell'appropriarsi della propria esistenza, sottraendola all'anonimia e recuperandone le possibilità. Questo significato è connesso al senso etimologico letterale della parola tedesca che traduce “autenticità” (Eigentlichkeit), parola riconducibile all'aggettivo “proprio” (Eigen). E' infatti autentico l'esserci che si appropria di sé, cioè che si progetta secondo la propria possibilità, scegliendo di vivere inventando il suo futuro e tendendo costitutivamente ad esso.
Si tratta solo di trovare la nostra strada, di progettare il nostro essere in modo più autentico, in modo più proprio. Si tratta, forse, solo di libertà. Ma ne siamo veramente in grado? Siamo proprio in grado di de-condizionarci, di non essere, come dice Gramsci, "conformisti di qualche conformismo"?
domenica 19 settembre 2010
Martin Heidegger, l'uomo e il "poter-essere"

Ma torniamo all’essere. Siamo sicuri che l’essere sia qualcosa su cui non si possano costruire interrogativi? Che cos’è l’essere? Che cosa è che ci fa esistere? Che cosa è il nulla? Che cosa pensiamo quando pensiamo il nulla?
Evidentemente non sono questioni inutili se a partire da Parmenide, un filosofo vissuto fra il VI e il V secolo a.C., molti pensatori ne hanno fatto oggetto di indagini. Eppure, sostiene Heidegger, la nozione di essere, nonostante sia stata posta all'attenzione dei filosofi da più di due millenni e appaia astratta, ovvia e scontata, in realtà necessita di una sua riproposizione. E sostiene anche che, per comprendere che cosa è l'essere, sia necessario assumere come punto di partenza l'esistenza dell'uomo, proprio perché l’uomo è l’unica “cosa” che non solo “è”, ma che considera il suo essere, la vita stessa una questione serissima, qualcosa che deve essere pensato e problematizzato. Nessuno di noi può sfuggire agli interrogativi sul nostro essere: l’esistenza, la nostra e quella degli altri, non è forse qualcosa di misterioso e tremendo, una specie di miracolo incomprensibile sul quale non cessiamo di interrogarci?
Ma che cos'è, in concreto, l'uomo? Quali le particolarità del suo essere?
Heidegger definisce l’uomo non come “essere”, ma come “poter-essere”: egli non è una realtà fissa e determinata, data una volta per tutte, ma un insieme di possibilità fra cui l'uomo si trova a scegliere. Tutti i vari enti – le cose, gli animali, i vegetali, l'uomo stesso – hanno un essere, ma nell'uomo la relazione con l'essere è assolutamente singolare. L'essere delle cose o degli esseri viventi diversi dall'uomo esprime l'impossibilità da parte di questi di esistere diversi da ciò che sono: questa pianta che vedo sul mio balcone non può che essere una pianta, la gatta sul mio divano non può che essere una gatta, questo libro aperto su questa scrivania non può essere diverso da quello che è. La pianta, la gatta e il libro “sono”, ma “sono” in una modalità statica e immodificabile, possiedono un'essenza definita, mentre nell'uomo l'essere, esprime la possibilità da parte di questo ente di essere ciò che progetta di essere, ovvero, di mettere sempre in gioco il proprio essere che non è solidificato e immobilizzato nella semplice-presenza. Questo vuol dire che mentre gli altri enti – le cose, i vegetali, gli animali – sono semplici-presenze, hanno un essere definito, invariabile, non modificabile, l'uomo è ciò che sceglie, ciò che progetta di essere. E beati voi che siete in un momento della vostra vita in cui potete ancora progettare di essere qualcosa e non qualcos’altro (anche io, ovviamente, ho ancora un bel ventaglio di possibilità, ma dubito che potrò mai diventare un medico, un ingegnere o una campionessa di atletica!!!).
Ma davvero ci troviamo di fronte a infinite possibilità? Ma davvero il mondo dei nostri “possibili” è così ampio?
Certo la vita non è, per l’uomo, qualcosa di totalmente determinato, non è affatto un destino immodificabile. Se così fosse, tutte queste domande non avrebbero alcun senso (allora sarebbe proprio meglio,penserà qualcuno di voi! Ci risparmieremo molto studio e molti mal di testa!). Nessuno sta a discutere se le pietre debbano cadere verso il basso o verso l’alto, si sa che cadono verso il basso, e basta. Come scrive un filosofo spagnolo “I castori costruiscono dighe nei ruscelli, le api fanno arnie esagonali: non esistono castori che tentino di costruire alveari, né api che si dedichino all’ingegneria idraulica” (Fernando Savater, Etica per un figlio). Ogni animale sa perfettamente che cosa deve fare, è programmato dalla natura ad agire in un modo anziché in un altro, senza discussioni né dubbi. Forse la mosca vorrebbe che il ragno facesse una cosa diversa invece che tessere la tela nella quale resterà impigliata, ma il ragno non può farci proprio nulla.
La conclusione a questo segmento del pensiero heideggeriano è che l’attività principale dell’uomo è autoinventarsi e dare forma a se stesso: in questo sta la sua origine e la sua differenza specifica. E certo Heidegger non è stato il primo a sostenere ciò: questa prospettiva, fondamentale nell’idea dinamica secondo l’essere umano si fa da se stesso, ebbe un’importanza centrale nella definizione della dignità umana operata da Giovanni Pico della Mirandola, un filosofo rinascimentale. Secondo Pico, come racconta nella sua opera principale l’Oratio pro hominis dignitate, Dio ha assegnato a ognuno degli esseri viventi un posto nella scala dei viventi, attribuendo ad ognuno un essere specifico, che lo fa essere né più né meno quello che è (insomma, ha deciso che le api facciano gli alveari, i castori le dighe, i ragni le ragnatele….). Ma all’uomo Dio non ha assegnato un posto suo proprio, egli è un elemento mobile in mezzo a figure incapsulate, un “magnifico camaleonte”, capace di scendere in basso a livello animale, o ascendere verso l’alto a livello di Dio. E Pico lascia che sia proprio Dio a parlare e a certificare questa peculiarità umana:
“Non ti ho dato, o Adamo, né un posto determinato, né un aspetto proprio, né alcuna prerogativa tua, perché quel posto, quell’aspetto, quelle prerogative che tu desidererai, tutto secondo il tuo voto e il tuo consiglio ottenga e conservi. La natura limitata degli altri è contenuta entro leggi da me prescritte. Tu, non costretto da nessuna barriera, la determinerai secondo il tuo arbitrio, alla cui potestà ti consegnai. Ti posi nel mezzo del mondo perché di là meglio tu scorgessi tutto ciò che è nel mondo. Non ti ho fatto né celeste né terreno, né mortale né immortale, perché di te stesso quasi libero e sovrano artefice ti plasmassi e ti scolpissi nella forma che avresti prescelto. Tu potrai degenerare nelle cose inferiori che sono i bruti; tu potrai, secondo il tuo volere, rigenerarti nelle cose superiori che sono divine”.
Ma quale è, secondo voi, la vera natura dell’uomo? Che cosa ci rende veramente umani? In che cosa consiste questo poter-essere? Come realizzarlo al meglio? Siamo certi che questo nostro poter-essere sia una possibilità piena ed infinita, e non sia, al contrario, limitata e circoscritta?
giovedì 16 settembre 2010
Si comincia male...
L’abitudine a ridere dei filosofi è antica come la filosofia. Si racconta che il primo di essi, Talete di Mileto, che incontreremo a breve, a forza di guardare il firmamento, cadde in un pozzo, provocando le risate di una serva che passava di lì. Scrive Platone in un suo dialogo intitolato “Teeteto”: «Talete, mentre stava scrutando le stelle e guardava in alto, cadde in un pozzo. Allora una servetta di Tracia, garbata e graziosa, rise dicendogli che si dava un gran da fare a conoscere le cose del cielo, ma le cose che gli stavano dappresso, davanti ai piedi, gli rimanevano nascoste». Talete, quindi, scruta l’universo, osserva le stelle (si narra infatti che fosse esperto delle cose del cielo e che fosse capace di prevedere eclissi), guarda in alto, irrimediabilmente più in alto di questo mondo abitato da cose che trascorrono e muoiono. Rapito dal pensiero, che si placa in questo contemplare, si distrae dal mondo terreno della vita quotidiana e precipita in un pozzo. A che serve, ride la servetta Tracia, guardare tanto in alto, se non si riesce a schivare un pozzo davanti ai piedi? Non è che la filosofia ci allontana da ciò che veramente è importante?
Strani davvero questi filosofi che preferiscono il cielo alla terra.
Ma Talete non è il solo ad essere oggetto di umorismo. Un commediografo ateniese, Aristofane, nel 423 a.C. mise in scena una delle sue più famose commedie (che avremo modo di spiegare e leggere, in parte…), Le Nuvole, dove si burla, con crudele sfacciataggine, del filosofo Socrate, suo contemporaneo: in una famosa scena lo presenta dentro un cesto, appeso ben in alto, per poter studiare meglio le stelle. Evidentemente Aristofane non era il solo ad avere questa idea di Socrate e la sua parodia fu condivisa da molti, visto che, qualche anno dopo, nel 399 a.C., il povero Socrate sarà condannato a morte e costretto a bere la cicuta, una bevanda velenosa che gli diede la morte.
Eppure con questi personaggi strani, che cadono nei pozzi perché presi a contemplare il cielo, dobbiamo imparare a convivere, addirittura dobbiamo imparare a dialogare. E impareremo anche, discutendo con questi tipi strani, che cadono nei pozzi e osservano e contemplano il cielo (in realtà anche la terra) che le cose non stanno come Bodei e Savater ci vogliono far credere. E lo sanno anche loro, che alla filosofia e allo studio della sua storia hanno dedicato tutta la loro vita di intellettuali.
Ma allora che cosa è questa filosofia? Che cosa dobbiamo chiedere a questa nuova disciplina? Non possiamo chiederle risposte chiare, non possiamo chiederle risposte sbrigative. Le chiediamo domande. La filosofia non risolve i quesiti della realtà (anche se, talvolta, qualche filosofo ha creduto il contrario), piuttosto coltiva la domanda, ci aiuta a mettere in risalto questo interrogare, ci insegna a domandare sempre meglio, ossia, come scrive Savater, “ad umanizzarci nella convivenza perpetua con il quesito”. Che vuol dire il filosofo spagnolo? Vuol dire che il porsi domande, il rivolgersi quesiti, essere in confidenza (e convivenza) con questo continuo interrogare è ciò che ci rende realmente uomini.
L’uomo è l’animale che fa domande e che continuerà a farle al di là di qualunque immaginabile risposta. Ed è anche l’animale che non si accontenta di guardare l’ombra dei suoi passi, ma alza gli occhi al cielo, esplora l’universo, alla ricerca di una risposta ai suoi perché, anche se è amaramente consapevole che alcune risposte stanno al di là delle sue possibilità di comprensione. Quindi, ci dispiace per la servetta Tracia, se vogliamo vivere una vita “da uomini” e non “da animali” dobbiamo correre il rischio di inciampare da qualche parte e, addirittura, di finire scaraventati in un pozzo.
Non possiamo sfuggire a questa condanna, quella di pensare, quella di domandare. A meno che non decidiamo di essere dei cavalli che invece di andare al trotto, o meglio al galoppo, se ne stanno abbandonati nella stalla a ruminare la biada, contenti solo di soddisfare i propri stomaci (vi ricordate il paragone di Socrate? Il tafano che stimola il pigro cavallo di razza?).
Lo diceva anche Blaise Pascal, un filosofo del XVII secolo: “L’uomo è manifestamente nato a pensare; qui sta tutta la sua dignità e tutto il suo pregio”. E diceva anche molte altre cose, ma le scopriremo più avanti. Buone domande.
Vediamo di cominciare...
"A un amico sappiamo di poter chiedere aiuto; speriamo di non doverlo fare troppo spesso, di non essergli mai di troppo peso, ma certo la sua presenza basta a infonderci grande sicurezza. Con un amico fa piacere passare il tempo: anche le esperienze più banali diventano significative se vissute insieme, anche nelle prove più difficili è un sollievo averlo accanto. Ma forse l'aspetto più straordinario e più utile di questa relazione è che un amico non è mai assente; conosciamo le sue passioni e le sue ragioni, e anche se è fisicamente lontano siamo in grado di parlargli, anche se non ha mai affrontato l'argomento che ci interessa siamo in grado di immaginare che cosa ne direbbe. Chi ha amici, dunque, non è mai solo. Quando è in difficoltà, potrà chiamarli se sono a portata di mano; ma se non lo sono potrà evocare il loro punto di vista e servirsene per trovare una strada.
Ho sempre avuto buoni amici; con alcuni ci vediamo ormai da decenni. Ma molti dei miei amici migliori, e di più lunga durata, non li ho visti mai di persona. Se li avessi visti, forse quel che vedevo mi sarebbe piaciuto o forse no; il problema comunque non si è mai posto, perchè li ho conosciuti soltanto attraverso quel che hanno scritto. Siccome c'era molto di loro in quel che hanno scritto, e siccome ci ho dedicato molto tempo, penso di conoscerli bene. La lettura sarà anche un modo indiretto di comunicare, ma questo vuol dire solo che è più onestamente indiretto di altri: crediamo forse di conoscere meglio una persona perchè ce l'abbiamo davanti? anche se non sappiamo che cosa le passa per la testa? Questi "amici letterari" mi sono stati preziosi. Non mi hanno mai aiutato a traslocare e non hanno mai passeggiato con me per Milano, non siamo mai entrati insieme in un bar o andati al cinema; ma quando si è trattato di decidere che cosa fare, in tanti piccoli e grandi episodi della mia vita, la loro voce si è fatta sentire e la conversazione mi ha chiarito le idee [...] se gli amici che vi presenterò vi sembreranno persone interessanti, magari vorrete conoscerli meglio, nell'unico modo in cui è possibile farlo: leggendoli. Se lo farete ne trarrete grande profitto, insieme ad un'unica dolorosa frustrazione: purtroppo loro non conosceranno mai voi. Da una parte ci saranno sempre solo parole; dall'altra sempre solo ammirazione e gratitudine"
Ermanno Bencivenga, Platone, amico mio. I filosofi rispondono alle grandi domande della nostra vita.
Con questa scarna paginetta introduttiva ad un libro di Ermanno Bencivenga, dò il benvenuto ai miei studenti e alle mie studentesse sulle pagine di queste blog. E' un esperimento e, come tale, può essere coronato da successo oppure risolversi in un totale fallimento. Ma, come si dice in un film che ha segnato il mio amore per il cinema alla vostra età: "Lupo, se non si va non si vede" (da "Domani accadrà" di Daniele Luchetti). Quindi andiamo; comunque vada, credo che ne sia valsa la pena. Queste righe di Bencivegna sono dedicate soprattutto ai ragazzi e alla ragazze di terza liceo, che stanno per fare la conoscenza di un nutrito gruppo di filosofi e che, in questi primi giorni di scuola, già si domandano di che cosa discuteremo con questi strani "amici letterari". Gli altri in parte lo sanno, ma devono ancora attendersi piacevoli sorprese....
Benvenuti a tutti e a tutte. Buon viaggio.