lunedì 11 ottobre 2010

Buon pomeriggio, buonasera e buonanotte...Jim Carrey e Arthur Schopenhauer...



La maggior parte di noi crede che il mondo vero sia quello che vediamo, udiamo e sentiamo. Siamo sicuri che la realtà che ci circonda sia la vera realtà e questa convinzione è talmente ovvia e scontata che neppure ci soffermiamo a rifletterci. Chi mai oserebbe farne questione?
Anche Truman Burbank (Jim Carrey) crede con certezza di vivere a Seaheven e pensa di essere anche fortunato ad essere stato “gettato” dal destino in quell’isola, perché può godere di un clima ideale e vivere in un paradiso in cui non succede mai niente di brutto. Invece, il regno confortevole in cui Anderson crede di svolgere la sua vita ordinaria è di fatto un ampio, deliberato inganno e la sua amatissima Seahaven è, in realtà, un gigantesco set costruito dietro le colline di Hollywood, nel quale tutto è falso: i concittadini sono comparse, il mare è una grande piscina, gli eventi atmosferici sono prodotti dagli effetti speciali e l’orizzonte è un fondale di cartapesta. Sì perché Truman è, fin dal concepimento, scelto come “cavia mediatica” e la sua vita si svolge dentro un gigantesco set cinematografico in cui ogni istante della sua vita è spiato da 5000 telecamere e mandato in onda ventiquattro ore su ventiquattro in un reality televisivo di grande successo, di cui egli è il protagonista inconsapevole. Ideatore e deus ex machina dello spettacolo è il regista Christof che dirige tutto dalla falsa luna, sede dello studio di registrazione e che si crede onnipotente come un Dio. Fermiamoci qui.
Il film di Peter Weir non è, come molti pensano, una semplice denuncia sociologica dell’invadenza della televisione (per questo, andatevi a vedere “Quinto Potere” di Sidney Lumet), né tanto meno, una mera critica a trasmissioni insulse sul tipo del Grande fratello (a che serie siamo arrivati?). Infatti, sono possibili livelli di lettura molto più profondi, come ad esempio quello che vede nel lungometraggio di Weir la trascrizione filmica del conflitto tra totalitarismo (che vuole controllare i cittadini anche nella loro vita privata)e libertà individuale. In fondo, Seahaven è la realizzazione del Panopticon, il dispositivo carcerario ideato dal filosofo Jeremy Bentham alla fine del Settecento: chi vi soggiorna può essere osservato, ma non può osservare. Nel Panopticon le celle sono disposte a cerchio intorno a una torre centrale, cosicché possono essere sorvegliate da un solo guardiano, che vede tutto senza essere mai visto (e ci torneremo, sul Panopticon, perché ne parlerà Michel Foucault in “Sorvegliare e punire”).
L’interpretazione più suggestiva del film di Peter Weir è però di tipo gnoseologico: The Truman Show è infatti una metafora dei limiti della nostra conoscenza, che scambia per realtà ciò che invece è illusione (in questo ci richiama alla mente un altro film genuinamente filosofico, "Matrix" dei fratelli Larry e Andy Wackowski). Adesso spero che a questo punto vi sia venuto in mente René Descartes e le sue Meditazioni metafisiche (1641). “De omnibus dubitandum est”, scrive il filosofo francese, niente si sottrae al dubbio. E il dubbio è talmente “iperbolico” che Cartesio arriva non solo a dubitare delle conoscenze sensoriali, ma di ogni conoscenza, anche di quelle che appaiono certe e sicure. E se ci fosse un “genio maligno” a orchestrare l’intera nostra esperienza tenendoci costantemente nell’inganno? La nostra mente potrebbe essere stata creata, anziché da un Dio buono e perfetto come quello cristiano, da un genio maligno e furbo, intento solo ad ingannarci. Il genio-maligno di Descartes trova una sua rappresentazione cinematografica nel personaggio regista-demiurgo di Christof, il quale osserva “dal cielo”, cioè da una luna artificiale, il mondo fittizio che ha creato per Truman. Christof, intervistato da un giornalista televisivo, spiega come mai Truman non si sia accorto dell’inganno in cui vive da sempre. “Secondo lei – chiede l’intervistatore – per quale motivo Truman non è mai riuscito a scoprire la vera natura del mondo in cui ha vissuto finora?” “E’ molto semplice – risponde Christof – noi accettiamo la realtà del mondo così come si presenta”. In altre parole, ognuno di noi è prigioniero di una caverna platonica.
La realtà vera non è quella che viviamo, le cose che percepiamo con i sensi sono un inganno, un sogno, uno strano incantesimo di cui cadiamo facilmente vittime. Ed eccoci a Schopenhauer e alla sua tesi circa l’illusorietà del mondo che ci circonda. Il mondo sensibile è illusione, sogno, simulacro, è “velo di Maya”:
“è Maya, il velo ingannatore che avvolge gli occhi dei mortali e fa loro vedere un mondo del quale non può dirsi né che esista né che non esista: perché ella rassomiglia al sogno, rassomiglia al riflesso del sole sulla sabbia, che il pellegrino da lontano scambia per acqua; o anche rassomiglia alla corda gettata a terra che egli prende per un serpente” (Il mondo come volontà e rappresentazione, I, § 3).
Solo al di là del fenomeno si trova la realtà vera sulla quale l’uomo, “animale metafisico”, non può fare a meno di interrogarsi. Ma l’idea del sogno, presuppone l’idea del risveglio. Da un sogno deve essere possibile risvegliarsi, da un inganno deve essere possibile liberarsi. Dalla vita illusoria di Seahaven è possibile uscire: il mondo i cui vive Truman ha un fuori, è davvero un inganno.
Come l’uomo di Schopenhauer può lacerare il vero di Maya e cogliere l’essenza noumenica della realtà, anche Truman, una volta compresa l’illusorietà del mondo in cui vive, decide di conoscere ciò che finora gli è stato nascosto, avventurandosi in mare aperto per trovare il “passaggio” che lo può condurre al di là del velo di Maya. Il regista non mostra il destino che attende Truman dopo la scoperta della “cosa in sé”: Truman spalanca solo una porta sul buio e non sappiamo che cosa il protagonista troverà dall’altra parte. La speranza è che tale rivelazione non risulti tragica come nella filosofia di Schopenhauer, in cui la volontà di vivere si mostra come dolore universale.
La possibilità di un lieto fine è però messa in dubbio da Christof quando afferma che Seaheven è sì un posto in cui Truman è prigioniero, ma è anche un luogo felice nel quale egli non ha niente da temere, è il mondo come dovrebbe essere, una “farsa” sì, ma anche un rifugio che lo protegge. Invece la realtà autentica, quella in cui vivono gli altri, è si “vera”, ma “malata” e pericolosa. Ma è davvero l’infelicità il prezzo che si deve pagare per uscire dall’illusione? E’ davvero così pericoloso conoscere la verità ed essere liberi? Quando vi sentite vittime di illusioni? E quanto queste illusioni vi riscaldano e proteggono? Il nome “Truman”, letto in inglese, significa “uomo vero” (true man). Perché, secondo voi, Weir ha scelto questo nome per il protagonista?

lunedì 4 ottobre 2010

Tutto ha inizio dalla "paura"...

Vi presento un grande filosofo dell’antichità: Aristotele. E’ talmente capace che Dante, nell’“Inferno” lo definisce “maestro di color che sanno”. Abbiamo visto come il primo libro della sua “Metafisica” possa essere considerato il primo manuale di storia della filosofia, anche se lui non aveva scelto né il titolo, né tanto meno quella precisa sistemazione del testo. All’inizio della “Metafisica”, Aristotele scrive:

“Gli uomini, all’inizio come adesso, hanno preso lo spunto per filosofare dalla meraviglia, poiché dapprincipio essi si stupivano dei fenomeni più semplici e di cui essi non sapevano rendersi conto, e poi, procedendo a poco a poco, si trovarono di fronte a problemi più complessi, come i fenomeni riguardanti la Luna, il Sole, le stelle e l’origine dell’universo”.

Si trova, in questo brano aristotelico, un termine molto importante per la filosofia: “thauma” (meraviglia), a cui è legato il verbo “thaumazein” (provare meraviglia).
La meraviglia come origine della filosofia, dice Aristotele. E il suo maestro, Platone, aveva scritto nel “Teeteto”: “E’ proprio del filosofo essere pieno di meraviglia: e il filosofare non ha altro cominciamento che l’essere pieno di meraviglia”.
Purtroppo però, la traduzione con “meraviglia” non va affatto bene: la resa in italiano, che non possiede la ricchezza del greco antico, conduce ad un restringimento di significato assolutamente fuorviante.
Nella lingua greca “thauma” rimanda a qualcosa di minaccioso, di inquietante: Omero, ad esempio, descrive Polifemo come “un mostro che incita paura (thauma)”. Questa parola greca, che Aristotele pone all’inizio della filosofia, sta a significare anzitutto lo sgomento ancestrale nello scoprire il divenire di tutte le cose, la paura di fronte alla consapevolezza che il mondo, e noi con lui, è sottoposto ad un ciclo continuo di nascita e di morte, la volontà di trovare un rimedio alla fine, al nostro scivolare nel nulla.
Nessuno può sfuggire al divenire, nessuno può sfuggire alla trasformazione, alla generazione e alla corruzione (per usare, ancora una volta, termini cari ad Aristotele!). Che la cosa ci piaccia o no, siamo su questa giostra e dobbiamo correre la nostra corsa, insieme a tutto il resto…
La filosofia nasce quindi dal “thauma”, cioè dallo sguardo angosciato sul mondo preda del continuo divenire. Ed è proprio di fronte a questo divenire che si arrestarono i primi filosofi: di fronte alla molteplicità dei fatti e ai loro mutamenti continui, la filosofia si costituisce come ricerca di quell’elemento unitario che spieghi il senso e l’accedere complessivo della realtà della natura. La filosofia, come abbiamo visto in classe, inizia quando il pensiero inizia ad interrogarsi sulla natura delle cose, sul loro principio di vita, sul principio regolatore che ne stabilisce l’ordine e le leggi. “Che cosa sono le cose che ci circondano e quale la loro origine?” E’ possibile trovare qualcosa che si sottragga alla molteplicità e al divenire, che possa sottrarsi a questo destino di morte e cui noi, in quanto individui, non possiamo sfuggire?
A queste domande, che avevano da sempre interessato l’uomo, rispondono i primi filosofi: Talete, Anassimandro, Anassimene, i Pitagorici, Eraclito, Parmenide, i fisici pluralisti, ossia quei filosofi che vengono indicati con l’etichetta “presocratici”. Prima di loro la risposta consisteva nel racconto mitico che narrava in forma poetica la nascita del mondo, mentre adesso si cerca una risposta diversa, affrontando la questione con un atteggiamento teso a spiegare razionalmente la realtà. Ad un certo punto, in un preciso momento della storia della nostra civiltà, cioè nella Grecia del VII secolo a.C., l’uomo ha cessato di accontentarsi delle parole del mito, delle sue risposte e dei suoi rimedi alla paura della morte e ha cercato le risposte della filosofia.
Le soluzioni che forniscono possono sembrare ingenue, ma la domanda a cui cercano una risposta, per quanto millenaria, è ancora viva e vegeta. In attesa di una soluzione che, forse, non arriverà mai.

Giganti o gnomi?




Abbiamo iniziato l’avventura della filosofia e siamo partiti dall’inizio, da quella “antica”.
Dopo Bodei, che ci dice che “la filosofia non serve a nulla”, per fortuna ci viene in soccorso un altro bravissimo professore di filosofia: Maurizio Ferraris. Oltre ad insegnare all’Università di Torino ed a scrivere libri interessanti, Ferraris si è prestato a registrare alcune lezioni, pubblicate in una serie di DVD per la rivista “L’Espresso”, proprio lo scorso anno. Il video con cui inizia questa riflessione è tratto proprio da lì. L’iniziativa editoriale inizia, ovviamente, con una lezione sui “Presocratici” ed è proprio sulle insidie e i tranelli nascosti dietro questa etichetta che Ferraris vuole metterci in guardia. “Presocratici”, non vuol certo dire “precursori”, “tristi predecessori”, non vuole battezzare questi filosofi (che pensarono prima della rivoluzione socratica) come degli opachi e smunti iniziatori di qualcosa che solo successivamente si rafforzerà e diventerà grande. Non restiamo vittime di un abbaglio: con i presocratici non ci troviamo nell’anticamera della filosofia, in attesa di varcare la soglia di un grande palazzo, con stanze ampie e ariose. Con i presocratici siamo già dentro una filosofia che, sebbene avrà occasione di maturare, pone alla nostra attenzione problemi che hanno una storia vecchia come il mondo.
Ma da cosa deriva questo abbaglio? Una convinzione molto diffusa è che ciò che appartiene all’antichità sia qualcosa di più “piccolo”, di più “modesto”, rispetto a ciò che è moderno o contemporaneo. E’ come se nel concetto di “antico” vi fosse inclusa l’idea che l’antichità corrisponda alla nascita, ai primi gemiti, ai primi respiri e che quindi necessiti di crescere e di maturare per raggiungere adeguati livelli, per parlare e respirare da adulto.
Invece, per la filosofia, è successo proprio il contrario. Ma c’è voluto un filosofo della statura di Martin Heidegger (ari-eccolo!!!!) perché la verità sull’importanza del pensiero antico venisse espressa adeguatamente e con autorità. A giusta ragione, infatti, egli sostiene che la “filosofia antica è nata grande”; nella “Introduzione alla metafisica”, Heidegger scrive:
“[…] qui si tratta della filosofia, vale a dire di una delle poche cose grandi di cui l’uomo è capace. Ora, ogni grande cosa può avere solo un grande inizio. Il suo inizio è sempre la cosa più grande […] Tale è la filosofia dei Greci”.
Si parte in quinta, allora. Non abbiamo avuto neppure il tempo per il rodaggio.
Eppure a noi queste risposte sembrano così fantasiose, così inverosimili e bizzarre. Altro che “grande” la filosofia della Grecia! Sembrano proprio dei vagiti queste teorie sull’archè…l’acqua, l’ápeiron, l’aria…e chissà quante altre ne inventeranno!
Davvero ci sembra una perdita di tempo studiare questi tipi strani, che non guardano neppure dove mettono i piedi, e che cadono nei pozzi per formulare ipotesi così stravaganti e sconclusionate!

Ma lasciamo un attimo la filosofia e volgiamoci a pagine di letteratura. Per inaugurare queste riflessioni dei primi filosofi, vi lascio una pagina di Erri de Luca, a cui devo letture indimenticabili:
In una voce di “Alzaia”, intitolata “Gnomi”, lo scrittore napoletano scrive:

“Archelao di Atene, maestro di Socrate, credeva che i terremoti fossero sfogo di vento compresso sottoterra. Democrito credeva invece che fossero flussi di acque sotterranee. Anassagora di Clazomene vide il cielo come una volta di pietre incastrare, soggette a cedimenti e crolli. […]
Diogene di Apollonia disse che il sole era come una pietra pomice e in esso si fissavano i raggi dell’etere. Leucippo affermò che la terra era un tamburo. Per Democrito era invece a forma di disco, concava nel mezzo. Posidonio e Dionisio conclusero che la terra era a forma di fionda.
Oggi sappiamo che sbagliavano, però scrutavano il mondo con tutti i sensi, lo meditavano per intero e abitavano la natura. Possedevano in loro tutti i punti del sapere di allora, conoscevano le stelle come le facce dei loro cari, predicevano eclissi e comete, affacciati sull’universo, nell’impresa di prevederlo. Noi siamo accampati in stanze protette contro la notte, il suolo e lo spazio aperto. Ci occupiamo di frammenti di ricerca sempre più minuscoli. Siamo gnomi nei confronti dei loro pensieri imprecisi, ma profondi, scaturiti da notti intere trascorse su terrazze e tetti a ragionare di infinito” (Erri De Luca, Alzaia).

mercoledì 22 settembre 2010

Le parole sono importanti



Torniamo sul linguaggio. Questo filmato è tratto da “Palombella rossa”, un film di un regista italiano che amo molto, Nanni Moretti (è un regista in gamba, ma che ha fatto film anche molto difficili….).
Due dei filosofi che abbiamo incontrato finora, Martin Heidegger e Antonio Gramsci ne parlano, ne fanno oggetto delle loro riflessioni. Abbiamo visto che Gramsci, nel brano che abbiamo letto in classe, sostiene che l’uomo “appartiene” ad un mondo, e quindi anche ad una visione del mondo”, anche solo per il fatto di parlare un linguaggio anziché un altro. Il linguaggio lo assorbiamo dalla nascita, lo facciamo nostro, anche se nostro non è.
Il linguaggio, infatti, non solo è uno strumento con cui comunichiamo, ma è anche sistema mediante il quale gli uomini descrivono, comprendono e comunicano il proprio mondo, se stessi ed il modo di relazionarsi con gli altri. Il linguaggio è, inoltre, strettamente connesso con il pensiero ed è utilizzato non solo per comunicare con se stessi e con gli altri, ma anche per forgiare l’intera visione del mondo. Come affermano i teorici della relatività linguistica, il mondo si presenta, infatti, come un flusso di impressioni che deve essere organizzato dal sistema linguistico, il quale cela in sé una metafisica, una Weltanshaung, una cultura.
Scrive il linguista statunitense Edward Sapir: “Alla domanda se si possa pensare facendo a meno del linguaggio la maggior parte delle persone risponderebbe di sì […]; l’impressione che molti hanno di poter pensare o addirittura ragionare senza la lingua è un’illusione […]. In effetti, appena noi tentiamo di stabilire una consapevole relazione tra un’immagine e l’altra, ci accorgiamo che stiamo scivolando in un flusso di parole silenziose” (E. Sapir, Il linguaggio, 1969). Non lo ha detto anche Moretti? “Chi parla male, pensa male”?

E’ il linguaggio che parla, in realtà, non noi. “E’ quindi al linguaggio che va lasciata la parola”, scrive Heidegger in una sua opera intitolata In cammino verso il linguaggio.
La connessione strettissima fra pensiero e linguaggio, ad esempio è stata sostenuta dal filosofo Ludwig Wittgenstein, secondo cui “i limiti del linguaggio sono i limiti del mio mondo” idea questa che ci indica chiaramente come al pensabile debba necessariamente corrispondere una parola. Laddove la parola manca, quindi, manca anche il pensiero, e l’analisi del linguaggio può quindi fornirci molte informazioni sulla cultura di cui è veicolo. “Nessuna cosa è (sia) dove la parola manca”, recita una poesia di Stefan George, indicandoci, questa volta con il linguaggio poetico, lo strettissimo rapporto fra parola e cosa, il ruolo annunciatore del linguaggio, che svela, chiama qualcosa ad essere.
E pensiamo a George Orwell che, nella società distopica di 1984, attribuisce alla manipolazione della lingua la funzione di eliminare ogni pensiero contrario all’ideologia dominante. La Neolingua orwelliana viene costruita, attraverso una progressiva eliminazione delle parole, per eliminare ogni pensiero in contrasto con la dittatura: “Giunti che saremo alla fine, renderemo il delitto di pensiero, ovvero lo psicoreato, del tutto impossibile perché non ci saranno più parole per esprimerlo”.

Noi stiamo per andare ad ampliare i limiti del nostro linguaggio, quindi stiamo andando ad ampliare i limiti del nostro mondo. Le parole sono importanti, non sono qualcosa di secondario.

Conoscete Don Milani? Era una sacerdote molto coraggioso che negli anni Sessanta costruì una scuola per i figli dei contadini e degli operai a Barbiana, nel Mugello, vicino Firenze. E sapete che cosa diceva ai suoi ragazzi? “Una parola che non sapete oggi, è un calcio in culo che prenderete domani”.

Kant, Kafka, Montale: uomini, scimmie, gabbie, caverne e reti...

Ci siamo lasciati con la parola libertà. Forse è proprio la libertà che fa la differenza, la libertà di scegliere, il più autonomamente possibile (ma è possibile????). Sentite cosa scrive della libertà Zygmunt Bauman, nel 1988: “La libertà nacque come privilegio e tale è rimasta da allora. La libertà divide e separa. Separa i migliori dal resto. Deriva il suo fascino dalla differenza: la sua presenza o la sua assenza riflettono, segnano e stabiliscono il contrasto fra ciò che è alto e ciò che è basso, fra ciò che è bene e ciò che è male, fra ciò che è desiderabile e ciò che è ripugnante” (Z. Bauman, La libertà).

Duecento anni prima, un filosofo prussiano di nome Immanuel Kant, pubblicava su una rivista un saggio dal titolo “Che cos’è l’illuminismo?”, dove dava una strana definizione, che possiamo definire di tipo etico-esistenziale:

“L’illuminismo é l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità che egli deve imputare a se stesso. Minorità é l’incapacità di servirsi del proprio intelletto senza la guida di un altro. Imputabile a se stessi é questa minorità se la causa di essa non dipende da difetto di intelligenza, ma dalla mancanza di decisione e del coraggio di servirsi del proprio intelletto senza essere guidati da un altro. Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza! E’ questo il motto dell' illuminismo”.

Decisione e coraggio, parole centrali in questo passo kantiano. Appare qui con estrema chiarezza che Kant definisce l’illuminismo come una fuga, un’uscita, un esito. L’illuminismo è lasciarsi indietro un mondo e spingersi a vele aperte verso qualcosa di ignoto e, per questo, pericoloso.

Continua Kant:

“La pigrizia e la viltà sono le cause per cui tanta parte degli uomini, dopo che la natura li ha da lungo tempo fatti liberi da direzione estranea (naturaliter maiorennes), rimangono ciò nondimeno volentieri per l’intera vita minorenni, per cui riesce facile agli altri erigersi a loro tutori. E' tanto comodo essere minorenni! Se ho un libro che pensa per me,un direttore spirituale che ha coscienza per me, un medico che decide per me sulla dieta che mi conviene, ecc., io non ho più bisogno di darmi pensiero da me. Purchè io sia in grado di pagare, non ho bisogno di pensare: altri si assumeranno per me questa noiosa occupazione”.

E’ comodo essere minorenni, è comodo affidarsi al pensiero altrui, è comodo rinunciare a quello che Gramsci chiama “il lavorio del proprio cervello”. Ma non è che scegliendo questa comodità ci abbassiamo al livello dei bruti, come diceva Pico, anziché innalzarsi al livello di Dio? Kant rimanda tutto all’individuo, al coraggio che l’individuo deve trovare per liberarsi dallo stato di minorità. Ma siamo sicuri che sia così semplice come Kant ci vuole far credere? Ma non è che, per caso, dentro la minorità, non solo ci stiamo comodamente, ma non sappiamo di esserci? Siamo sicuri che non abbiamo così tanto “naturalizzato” questa condizione da non essere più in grado di riconoscerla?

Mi viene in mente Kafka. In Relazione per un’Accademia, la scimmia Rotpeter è diventata un uomo a tutti gli effetti, tanto che racconta davanti all’Accademia la storia della sua trasformazione, della sua “umanizzazione”, dal momento in cui fu catturata al momento in cui imparò a parlare e ad essere dunque accettata dalla nobile comunità degli umani. Dopo la cattura, la scimmia si svegliò in una gabbia, troppo bassa per stare in piedi e troppo stretta per stare seduta (allora se la usiamo come simbolo della minorità, non mi pare così tanto comoda!!!!), Osserva l’ex scimmia:

“Si ritiene vantaggioso custodire le bestie in questo modo nei primi tempi della prigionia; e oggi, in base alla mia esperienza, non posso negare che, umanamente parlando, sia effettivamente così”.

Gli animali sono in questo modo ammorbiditi e disponibili a ricevere l’ammaestramento. Cosa effettivamente li dispone a ciò? L’impossibilità di una via d’uscita. L’ex scimmia aveva sì scoperto una fessura, ma proprio di fessura si trattava, insufficiente a far passare persino la coda. In una condizione siffatta:

“O sarei morto presto e, se fossi riuscito a sopravvivere a sopravvivere al primo periodo critico, sarei stato molto facile da ammaestrare”.

In una situazione come questa descritta da Kafka, alla domanda se l’uscita dalla minorità sia tutta da attribuire alla volontà individuale, alla decisione e al coraggio di cui parla Kant, la risposta è negativa, perché l’uscita dalla minorità, la ricerca di “una maglia rotta nella rete”, è assolutamente impossibile. Alla scimmia non resta che lasciarsi ammaestrare, non resta che diventare uomo, non resta che mimetizzarsi e accettare l’assimilazione che le viene richiesta, assimilazione alle sue leggi, alle sue regole, non resta che farsi “colonizzare”. A questo punto l’uscita dalla minorità diventa solamente apparente.

Voi chi scegliete tra Kant e Kafka? Siamo sicuri che sia così semplice trovare un’uscita, una fuga, quell’Ausgang di cui parla il filosofo dell’Illuminismo? Non è che siamo imprigionati in una caverna, incatenati fin da piccoli, a tal punto che sia impossibile riconoscere la nostra condizione come innaturale? Ma alle caverne torneremo con Platone, caverna che, illuminata dalle parole di Kant, vedremo con maggiore luce.

“Cerca una maglia rotta nella rete

Che ci stringe, tu balza fuori, fuggi!

Va, per te l’ho pregato. Ora la sete

Mi sarà lieve, meno acre la ruggine”

(Eugenio Montale, In limine)

Inautentici o autentici? Questo è il problema...

L’uomo è scaraventato sulla terra, costretto ad abitare questo mondo e non un altro, a respirarne la cultura, la visione del mondo, ad assorbirne i pregiudizi. Quando Heidegger afferma che l'esserci ha già una certa comprensione del mondo, contrassegnata anche da una particolare situazione affettiva, intende dire che l'esserci incontra il mondo sempre alla luce di certe idee, di certi preconcetti che ha respirato nel contesto socio-culturale in cui è “gettato” e si trova a vivere. La preliminare comprensione l’uomo ha del mondo coincide, quindi, con l'adesione immediata e spontanea, e quindi acritica, ad un mondo storico e sociale che ci precede e che è caratterizzato da un insieme di idee e di pregiudizi , cioè da un determinato modo di percepire e valutare le cose.

Ad Heidegger fa eco Antonio Gramsci in una pagina molto densa dei suoi Quaderni dal carcere: “Per la propria concezione del mondo si appartiene sempre ad un determinato raggruppamento, e precisamente a quello di tutti gli elementi sociali che condividono uno stesso modo di pensare e di operare. Si è conformisti di un qualche conformismo, si è sempre uomini-massa o uomini-collettivi”. Ognuno di noi, in altri termini, ha assorbito, insieme al linguaggio, che già “contiene una determinata concezione del mondo”, precisa Gramsci, un insieme di valori, di norme, di comportamenti.

Certo l’omerico Ettore che, nell’Iliade, aspetta Achille, furioso campione degli Achei, per scontrarsi con lui, pur sapendo che questi è più forte di lui e che probabilmente lo ucciderà, non è “programmato” dalla natura per combattere, per fare l’eroe, non è affidato necessariamente a quel destino. Ettore avrebbe potuto darsi malato, o dire che non aveva voglia di affrontare uno più forte di lui. Avrebbe potuto travestirsi da donna e fuggire, oppure inventare una nuova religione che diceva che non bisogna lottare contro i nemici ma porgere l’altra guancia quando ci schiaffeggiano. Certo però, se ci pensiamo bene, anche se questi comportamenti non sono “impossibili” (mentre un castoro che fa alveari e un’ape che costruisce dighe lo è….), sarebbero però da considerare alquanto strani. Perché Ettore apparteneva ad un mondo e non ad un altro ed era stato educato in base a certe tradizioni, abitudini, moduli di comportamento, leggende…in poche parole fin dalla culla ad Ettore, come ad ognuno di noi, è stata inculcata la fedeltà a certe cose e non ad altre. Ettore era stato educato fin da piccolo ad essere un buon guerriero al servizio della sua città e gli avevano detto che la vigliaccheria è una cosa abominevole, indegna di un uomo. Insomma, anche lui, in un modo meno forte, era programmato culturalmente ad agire così. Pensate che Ettore avrebbe potuto dire “andate al diavolo!”, oppure no? Voi che dite? Quanto è forte, in ognuno di noi, il condizionamento culturale?

Ma torniamo ad Heidegger, dopo aver ringraziato Fernando Savater che mi ha prestato questo esempio omerico nel suo bel libro “Etica per un figlio” (libro che, come si capisce dal titolo parla di etica, cioè di una branca della filosofia. Libro che, tra l’altro, vi consiglio, fa sicuramente riflettere…).

L’essere gettato, per il filosofo tedesco, fa inevitabilmente scadere la nostra esistenza nell'inautenticità di un atteggiamento anonimo, nel riconoscimento in una specie di io collettivo, quello del “si” impersonale. L’uomo, infatti, ha una spontanea tendenza a comprendere il mondo secondo la mentalità collettiva, a pensare quello che comunemente “si” pensa, a dire quello che solitamente “si” dice, ovvero a vivere quello che Heidegger chiama il mondo del “si” impersonale, dove ognuno di noi si mimetizza, perde i propri contorni, diventa irrilevante. Nella vita quotidiana, dove domina incontrastata una dimensione inautentica, ognuno è come l'altro, l'uomo non è se stesso, ma è tutti e nessuno, poiché è calato in una dimensione in cui dominano incontrastati il “si dice” e il “si fa”. Vengono alla mente le parole di uno scrittore tedesco che, in un modo penetrante e diretto, ha descritto la stessa opacità dell’uomo, il suo perdersi nell’anonimato del pensare comune. Pochi anni dopo la pubblicazione di Essere e tempo, Robert Musil così descriveva l’uomo del suo tempo:

«“E’ molto apprezzabile che un uomo, ai nostri tempi, aspiri ancora ad essere completo”. “Macchè, non è possibile”, opinò Ulrich. “Prova a dare un’occhiata al giornale. E’ assolutamente impenetrabile. Vi si parla di tante cose, che non basterebbe il cervello di un Leibniz per capirle. Ma non ce ne accorgiamo nemmeno; siamo diventati diversi. Non c’è più un uomo completo di fronte ad un mondo completo, ma un qualche cosa di umano che si muove in un comune liquido nutritivo» (R. Musil, L’uomo senza qualità).

Alle parole della letteratura fanno eco quelle della filosofia:

«Il Si, come risposta al problema del Chi dell’esserci quotidiano, è il nessuno a cui ogni esserci si è abbandonato nell’indifferenza del suo essere-assieme» [M. Heidegger, Essere e tempo].

Nelle pagine di Essere e tempo troviamo la descrizione di un Esserci che non vive del suo proprio “poter-essere”, ma viene vissuto da parte del “si”: “ognuno è gli altri, nessuno è se stesso”, scrive Heidegger. Questi “nessuno” si muovono su un comune palcoscenico e recitano una parte spettrale, che altri hanno scritto per loro. L'uomo, infatti, in questa dimensione dell’inautenticità si allontana da sé, coprendo le potenzialità che lo caratterizzano, appiattendo il poter-essere sull'essere del “si”: noi non possiamo sfuggire a questa mentalità generica ed impersonale, non possiamo cioè evitare di essere legati a questo modo, anonimo ed irresponsabile, di interpretare le cose:

Come si definisce, allora, in contrapposizione a ciò, l'esistenza autentica? L'autenticità opera, rispetto all’inautenticità, una sorta di contro-movimento: quello grazie al quale l'essere si definisce autenticamente come possibilità e sceglie il poter-essere più proprio. L'autenticità è come una seconda nascita, è un venire di nuovo al mondo, poichè consiste nell'appropriarsi della propria esistenza, sottraendola all'anonimia e recuperandone le possibilità. Questo significato è connesso al senso etimologico letterale della parola tedesca che traduce “autenticità” (Eigentlichkeit), parola riconducibile all'aggettivo “proprio” (Eigen). E' infatti autentico l'esserci che si appropria di sé, cioè che si progetta secondo la propria possibilità, scegliendo di vivere inventando il suo futuro e tendendo costitutivamente ad esso.

Si tratta solo di trovare la nostra strada, di progettare il nostro essere in modo più autentico, in modo più proprio. Si tratta, forse, solo di libertà. Ma ne siamo veramente in grado? Siamo proprio in grado di de-condizionarci, di non essere, come dice Gramsci, "conformisti di qualche conformismo"?


domenica 19 settembre 2010

Martin Heidegger, l'uomo e il "poter-essere"




Il signore qui sopra si chiamava Martin Heidegger. Negli anni Venti, rifugiatosi nella sua baita a Todtnauberg, nella Foresta Nera, scrisse uno dei capolavori della filosofia del Novecento: Sein und Zeit, (Essere e tempo). Un titolo ambizioso, che promette di occuparsi di tutto. Nell’ambiente universitario molti sapevano che Heidegger stava lavorando ad un’opera di grande spessore, ma nessuno si aspettava che avrebbe partorito un lavoro così ambizioso. Ma il filosofo tedesco dice di occuparsi, in quest’opera corpulenta (la traduzione in italiano conta ben 558 pagine!!!!), di una questione che da secoli era stata analizzata e studiata dai filosofi e che a noi sembra essere qualcosa su cui sia impossibile porre domande: l’essere. Peccato che la filosofia ami porre questioni anche su ciò che a noi appare come ovvio e indubitabile…Aristofane, quel commediografo che prendeva in giro Socrate, amava descriverlo come uno strano pensatore che si chiedeva quante volte le pulci possono saltare i propri piedi e se le zanzare cantino con la bocca o con il didietro…ma Aristofane non amava molto la filosofia e detestava Socrate, quindi non lo possiamo considerare un commentatore imparziale.
Ma torniamo all’essere. Siamo sicuri che l’essere sia qualcosa su cui non si possano costruire interrogativi? Che cos’è l’essere? Che cosa è che ci fa esistere? Che cosa è il nulla? Che cosa pensiamo quando pensiamo il nulla?
Evidentemente non sono questioni inutili se a partire da Parmenide, un filosofo vissuto fra il VI e il V secolo a.C., molti pensatori ne hanno fatto oggetto di indagini. Eppure, sostiene Heidegger, la nozione di essere, nonostante sia stata posta all'attenzione dei filosofi da più di due millenni e appaia astratta, ovvia e scontata, in realtà necessita di una sua riproposizione. E sostiene anche che, per comprendere che cosa è l'essere, sia necessario assumere come punto di partenza l'esistenza dell'uomo, proprio perché l’uomo è l’unica “cosa” che non solo “è”, ma che considera il suo essere, la vita stessa una questione serissima, qualcosa che deve essere pensato e problematizzato. Nessuno di noi può sfuggire agli interrogativi sul nostro essere: l’esistenza, la nostra e quella degli altri, non è forse qualcosa di misterioso e tremendo, una specie di miracolo incomprensibile sul quale non cessiamo di interrogarci?
Ma che cos'è, in concreto, l'uomo? Quali le particolarità del suo essere?
Heidegger definisce l’uomo non come “essere”, ma come “poter-essere”: egli non è una realtà fissa e determinata, data una volta per tutte, ma un insieme di possibilità fra cui l'uomo si trova a scegliere. Tutti i vari enti – le cose, gli animali, i vegetali, l'uomo stesso – hanno un essere, ma nell'uomo la relazione con l'essere è assolutamente singolare. L'essere delle cose o degli esseri viventi diversi dall'uomo esprime l'impossibilità da parte di questi di esistere diversi da ciò che sono: questa pianta che vedo sul mio balcone non può che essere una pianta, la gatta sul mio divano non può che essere una gatta, questo libro aperto su questa scrivania non può essere diverso da quello che è. La pianta, la gatta e il libro “sono”, ma “sono” in una modalità statica e immodificabile, possiedono un'essenza definita, mentre nell'uomo l'essere, esprime la possibilità da parte di questo ente di essere ciò che progetta di essere, ovvero, di mettere sempre in gioco il proprio essere che non è solidificato e immobilizzato nella semplice-presenza. Questo vuol dire che mentre gli altri enti – le cose, i vegetali, gli animali – sono semplici-presenze, hanno un essere definito, invariabile, non modificabile, l'uomo è ciò che sceglie, ciò che progetta di essere. E beati voi che siete in un momento della vostra vita in cui potete ancora progettare di essere qualcosa e non qualcos’altro (anche io, ovviamente, ho ancora un bel ventaglio di possibilità, ma dubito che potrò mai diventare un medico, un ingegnere o una campionessa di atletica!!!).
Ma davvero ci troviamo di fronte a infinite possibilità? Ma davvero il mondo dei nostri “possibili” è così ampio?
Certo la vita non è, per l’uomo, qualcosa di totalmente determinato, non è affatto un destino immodificabile. Se così fosse, tutte queste domande non avrebbero alcun senso (allora sarebbe proprio meglio,penserà qualcuno di voi! Ci risparmieremo molto studio e molti mal di testa!). Nessuno sta a discutere se le pietre debbano cadere verso il basso o verso l’alto, si sa che cadono verso il basso, e basta. Come scrive un filosofo spagnolo “I castori costruiscono dighe nei ruscelli, le api fanno arnie esagonali: non esistono castori che tentino di costruire alveari, né api che si dedichino all’ingegneria idraulica” (Fernando Savater, Etica per un figlio). Ogni animale sa perfettamente che cosa deve fare, è programmato dalla natura ad agire in un modo anziché in un altro, senza discussioni né dubbi. Forse la mosca vorrebbe che il ragno facesse una cosa diversa invece che tessere la tela nella quale resterà impigliata, ma il ragno non può farci proprio nulla.
La conclusione a questo segmento del pensiero heideggeriano è che l’attività principale dell’uomo è autoinventarsi e dare forma a se stesso: in questo sta la sua origine e la sua differenza specifica. E certo Heidegger non è stato il primo a sostenere ciò: questa prospettiva, fondamentale nell’idea dinamica secondo l’essere umano si fa da se stesso, ebbe un’importanza centrale nella definizione della dignità umana operata da Giovanni Pico della Mirandola, un filosofo rinascimentale. Secondo Pico, come racconta nella sua opera principale l’Oratio pro hominis dignitate, Dio ha assegnato a ognuno degli esseri viventi un posto nella scala dei viventi, attribuendo ad ognuno un essere specifico, che lo fa essere né più né meno quello che è (insomma, ha deciso che le api facciano gli alveari, i castori le dighe, i ragni le ragnatele….). Ma all’uomo Dio non ha assegnato un posto suo proprio, egli è un elemento mobile in mezzo a figure incapsulate, un “magnifico camaleonte”, capace di scendere in basso a livello animale, o ascendere verso l’alto a livello di Dio. E Pico lascia che sia proprio Dio a parlare e a certificare questa peculiarità umana:

“Non ti ho dato, o Adamo, né un posto determinato, né un aspetto proprio, né alcuna prerogativa tua, perché quel posto, quell’aspetto, quelle prerogative che tu desidererai, tutto secondo il tuo voto e il tuo consiglio ottenga e conservi. La natura limitata degli altri è contenuta entro leggi da me prescritte. Tu, non costretto da nessuna barriera, la determinerai secondo il tuo arbitrio, alla cui potestà ti consegnai. Ti posi nel mezzo del mondo perché di là meglio tu scorgessi tutto ciò che è nel mondo. Non ti ho fatto né celeste né terreno, né mortale né immortale, perché di te stesso quasi libero e sovrano artefice ti plasmassi e ti scolpissi nella forma che avresti prescelto. Tu potrai degenerare nelle cose inferiori che sono i bruti; tu potrai, secondo il tuo volere, rigenerarti nelle cose superiori che sono divine”.

Ma quale è, secondo voi, la vera natura dell’uomo? Che cosa ci rende veramente umani? In che cosa consiste questo poter-essere? Come realizzarlo al meglio? Siamo certi che questo nostro poter-essere sia una possibilità piena ed infinita, e non sia, al contrario, limitata e circoscritta?

giovedì 16 settembre 2010

Si comincia male...



Si comincia male, direi….Uno dei più importanti filosofi italiani, Remo Bodei, ci dice che la filosofia non serve a nulla. E questo, in fondo, è stato il rimprovero che da sempre è stato mosso alla filosofia. Lo dice anche un altro filosofo, spagnolo questa volta, Fernando Savater: «se si vogliono riassumere i rimproveri mossi alla filosofia in quattro parole, bastano queste: non serve a nulla. Più di chiunque altro i filosofi vogliono conoscere tutto lo scibile umano, ma in realtà non sono altro che ciarlatani, amanti della vacua verbosità. […] In fondo i filosofi si ostinano a parlare di ciò che non sanno: lo ammise anche Socrate, quando disse ‘so soltanto di non sapere’…». Un buon inizio, direte voi.
L’abitudine a ridere dei filosofi è antica come la filosofia. Si racconta che il primo di essi, Talete di Mileto, che incontreremo a breve, a forza di guardare il firmamento, cadde in un pozzo, provocando le risate di una serva che passava di lì. Scrive Platone in un suo dialogo intitolato “Teeteto”: «Talete, mentre stava scrutando le stelle e guardava in alto, cadde in un pozzo. Allora una servetta di Tracia, garbata e graziosa, rise dicendogli che si dava un gran da fare a conoscere le cose del cielo, ma le cose che gli stavano dappresso, davanti ai piedi, gli rimanevano nascoste». Talete, quindi, scruta l’universo, osserva le stelle (si narra infatti che fosse esperto delle cose del cielo e che fosse capace di prevedere eclissi), guarda in alto, irrimediabilmente più in alto di questo mondo abitato da cose che trascorrono e muoiono. Rapito dal pensiero, che si placa in questo contemplare, si distrae dal mondo terreno della vita quotidiana e precipita in un pozzo. A che serve, ride la servetta Tracia, guardare tanto in alto, se non si riesce a schivare un pozzo davanti ai piedi? Non è che la filosofia ci allontana da ciò che veramente è importante?
Strani davvero questi filosofi che preferiscono il cielo alla terra.
Ma Talete non è il solo ad essere oggetto di umorismo. Un commediografo ateniese, Aristofane, nel 423 a.C. mise in scena una delle sue più famose commedie (che avremo modo di spiegare e leggere, in parte…), Le Nuvole, dove si burla, con crudele sfacciataggine, del filosofo Socrate, suo contemporaneo: in una famosa scena lo presenta dentro un cesto, appeso ben in alto, per poter studiare meglio le stelle. Evidentemente Aristofane non era il solo ad avere questa idea di Socrate e la sua parodia fu condivisa da molti, visto che, qualche anno dopo, nel 399 a.C., il povero Socrate sarà condannato a morte e costretto a bere la cicuta, una bevanda velenosa che gli diede la morte.
Eppure con questi personaggi strani, che cadono nei pozzi perché presi a contemplare il cielo, dobbiamo imparare a convivere, addirittura dobbiamo imparare a dialogare. E impareremo anche, discutendo con questi tipi strani, che cadono nei pozzi e osservano e contemplano il cielo (in realtà anche la terra) che le cose non stanno come Bodei e Savater ci vogliono far credere. E lo sanno anche loro, che alla filosofia e allo studio della sua storia hanno dedicato tutta la loro vita di intellettuali.
Ma allora che cosa è questa filosofia? Che cosa dobbiamo chiedere a questa nuova disciplina? Non possiamo chiederle risposte chiare, non possiamo chiederle risposte sbrigative. Le chiediamo domande. La filosofia non risolve i quesiti della realtà (anche se, talvolta, qualche filosofo ha creduto il contrario), piuttosto coltiva la domanda, ci aiuta a mettere in risalto questo interrogare, ci insegna a domandare sempre meglio, ossia, come scrive Savater, “ad umanizzarci nella convivenza perpetua con il quesito”. Che vuol dire il filosofo spagnolo? Vuol dire che il porsi domande, il rivolgersi quesiti, essere in confidenza (e convivenza) con questo continuo interrogare è ciò che ci rende realmente uomini.
L’uomo è l’animale che fa domande e che continuerà a farle al di là di qualunque immaginabile risposta. Ed è anche l’animale che non si accontenta di guardare l’ombra dei suoi passi, ma alza gli occhi al cielo, esplora l’universo, alla ricerca di una risposta ai suoi perché, anche se è amaramente consapevole che alcune risposte stanno al di là delle sue possibilità di comprensione. Quindi, ci dispiace per la servetta Tracia, se vogliamo vivere una vita “da uomini” e non “da animali” dobbiamo correre il rischio di inciampare da qualche parte e, addirittura, di finire scaraventati in un pozzo.
Non possiamo sfuggire a questa condanna, quella di pensare, quella di domandare. A meno che non decidiamo di essere dei cavalli che invece di andare al trotto, o meglio al galoppo, se ne stanno abbandonati nella stalla a ruminare la biada, contenti solo di soddisfare i propri stomaci (vi ricordate il paragone di Socrate? Il tafano che stimola il pigro cavallo di razza?).
Lo diceva anche Blaise Pascal, un filosofo del XVII secolo: “L’uomo è manifestamente nato a pensare; qui sta tutta la sua dignità e tutto il suo pregio”. E diceva anche molte altre cose, ma le scopriremo più avanti. Buone domande.

Vediamo di cominciare...

"A un amico sappiamo di poter chiedere aiuto; speriamo di non doverlo fare troppo spesso, di non essergli mai di troppo peso, ma certo la sua presenza basta a infonderci grande sicurezza. Con un amico fa piacere passare il tempo: anche le esperienze più banali diventano significative se vissute insieme, anche nelle prove più difficili è un sollievo averlo accanto. Ma forse l'aspetto più straordinario e più utile di questa relazione è che un amico non è mai assente; conosciamo le sue passioni e le sue ragioni, e anche se è fisicamente lontano siamo in grado di parlargli, anche se non ha mai affrontato l'argomento che ci interessa siamo in grado di immaginare che cosa ne direbbe. Chi ha amici, dunque, non è mai solo. Quando è in difficoltà, potrà chiamarli se sono a portata di mano; ma se non lo sono potrà evocare il loro punto di vista e servirsene per trovare una strada.

Ho sempre avuto buoni amici; con alcuni ci vediamo ormai da decenni. Ma molti dei miei amici migliori, e di più lunga durata, non li ho visti mai di persona. Se li avessi visti, forse quel che vedevo mi sarebbe piaciuto o forse no; il problema comunque non si è mai posto, perchè li ho conosciuti soltanto attraverso quel che hanno scritto. Siccome c'era molto di loro in quel che hanno scritto, e siccome ci ho dedicato molto tempo, penso di conoscerli bene. La lettura sarà anche un modo indiretto di comunicare, ma questo vuol dire solo che è più onestamente indiretto di altri: crediamo forse di conoscere meglio una persona perchè ce l'abbiamo davanti? anche se non sappiamo che cosa le passa per la testa? Questi "amici letterari" mi sono stati preziosi. Non mi hanno mai aiutato a traslocare e non hanno mai passeggiato con me per Milano, non siamo mai entrati insieme in un bar o andati al cinema; ma quando si è trattato di decidere che cosa fare, in tanti piccoli e grandi episodi della mia vita, la loro voce si è fatta sentire e la conversazione mi ha chiarito le idee [...] se gli amici che vi presenterò vi sembreranno persone interessanti, magari vorrete conoscerli meglio, nell'unico modo in cui è possibile farlo: leggendoli. Se lo farete ne trarrete grande profitto, insieme ad un'unica dolorosa frustrazione: purtroppo loro non conosceranno mai voi. Da una parte ci saranno sempre solo parole; dall'altra sempre solo ammirazione e gratitudine"

Ermanno Bencivenga, Platone, amico mio. I filosofi rispondono alle grandi domande della nostra vita.

Con questa scarna paginetta introduttiva ad un libro di Ermanno Bencivenga, dò il benvenuto ai miei studenti e alle mie studentesse sulle pagine di queste blog. E' un esperimento e, come tale, può essere coronato da successo oppure risolversi in un totale fallimento. Ma, come si dice in un film che ha segnato il mio amore per il cinema alla vostra età: "Lupo, se non si va non si vede" (da "Domani accadrà" di Daniele Luchetti). Quindi andiamo; comunque vada, credo che ne sia valsa la pena. Queste righe di Bencivegna sono dedicate soprattutto ai ragazzi e alla ragazze di terza liceo, che stanno per fare la conoscenza di un nutrito gruppo di filosofi e che, in questi primi giorni di scuola, già si domandano di che cosa discuteremo con questi strani "amici letterari". Gli altri in parte lo sanno, ma devono ancora attendersi piacevoli sorprese....

Benvenuti a tutti e a tutte. Buon viaggio.